Il nulla, il tutto, con qualche cosa nel mezzo

Massimo Biondi 05 Dic 2012

Pensate: secondo un'intera famiglia di teorie fisiche, ogni volta che uno di "noi" sceglie se cuocersi un uovo in padella o succhiarlo crudo, se imboccare con l'auto una strada in salita o girare a destra, se comprarsi un paio di scarpe marroni o dei mocassini neri senza lacci, le leggi dell'universo realizzano un doppione della sua persona che spediscono all'istante in un universo parallelo a fare quello che "noi" abbiamo deciso di non fare. Un sottogruppo di quello stesso insieme di teorie fisiche, corredate di tanto di formule matematiche, si spinge perfino a sostenere che a ogni scelta compiuta, a ogni biforcazione superata, viene creato senza indugi un intero universo parallelo, per accogliere e incorporare in sé la replica perfetta non soltanto di "noi" ma anche di tutto il resto: case, città, pianeta, sistema stellare, formiche, buchi neri, iPad, copriorecchie per la neve, comete e galassie compresi. Un gigantesco spreco di infiniti, che passa da un'esistenza virtuale ad una concreta e reale solo perché "noi" seguiamo l'uzzolo di fare qualcosa e scartare qualcos'altro.

 

 

Come vedete, continuo a scrivere "noi" tra virgolette, come quando si vuole suggerire ai lettori qualcosa al di là delle parole. Ma a che cosa alludo è presto detto: in un'eventuale realtà sventagliata di questo tipo, strutturata come una specie di cartucciera dove molteplici copie di ogni pensante in movimento vengono prodotte a ritmo frenetico e mitragliate chissà dove, lontano, in universi paralleli (??) non in contatto con il nostro abituale, è difficile dire più chi siamo "noi", chi io sia. Sono forse quello che ricorda di aver cotto in padella l'uovo prima di esserselo mangiato ieri sera e oggi ne scrive l'epitaffio in una rivista scientifica, o sono magari quello che l'ha ingurgitato crudo finendo nel momento stesso scaraventato in un'altra dimensione, dove arriva portandosi appresso coscienza e memoria di aver compiuto l'atto sacrilego (per un vegetaliano) di avere sconsideratamente mandato giù un uovo non morto di morte naturale? Se per "io" intendiamo colui che ha una certa identità, una certa dotazione di memoria e una determinata coscienza, allora... è il mio stesso "io", ovvero sono io anche quel tizio che adesso se ne sta tranquillamente vivendo – ignaro di me? – dentro un altro universo; ed è "io" anche quell'altro me che in un mondo differente ricorda bene di aver gettato nella spazzatura quell'uovo (era marcio!), e quell'altro ancora che odia le uova e ieri sera si è sfamato con una mozzarella, o quello che è andato al ristorante cinese (cinese? della Cina di un altro insieme di realtà, ovviamente) a mangiare sushi... e così via: all'infinito, di nuovo.

 

 

E voi, sì proprio voi che ora state leggendo questo articolo o che avete smesso di leggere già qualche riga fa, voi che mi leggerete domani o che non mi leggerete mai, non sentitevi tranquilli solo perché ho finora parlato soltanto di me e delle mie disavventure alle prese con un uovo: queste (quelle?) copie innumerevoli, irrefrenabilmente prodotte da un'invisibile catena di montaggio nascosta tra le pieghe delle undici o venti dimensioni che formano la nostra realtà, sono una cosa che riguarda anche voi. Sì, perché anche voi vi state riproducendo, senza che ve ne accorgiate, gemmando in altri universi dei quali siete ignari e perdendo così l'unicità dell'essere voi stessi. Un simile processo di moltiplicazione (assai più efficiente di quello che un tempo riguardò pochi pani e qualche pesce) pare sia una proprietà universale, nel senso che vale continuamente e non può essere arrestato se non trovando il motore che manda avanti tutto e inceppandolo poi con una chiave inglese. Peccato che dove sia questo motore, se pure mai esista, le teorie scientifiche di cui parlavo prima non lo dicono. Loro – anzi: esse – si limitano a configurare delle ipotesi, sulla base di certi presupposti, ed elaborano formule matematiche sempre più ostiche ai non addetti ai lavori per vedere infine fin dove si può andare a parare.

 

 

Hugh Everett III, Dieter Zeh, Alan Guth, Andrei Linde, sono solo alcuni dei nomi dei componenti di una piccola banda di fisici teorici che in maniera diretta o solo tangenzialmente, per brevi periodi o con costanza (e quasi tutti con la soddisfazione maligna di essere incomprensibili per chi ha un'istruzione solitamente ordinaria) hanno affrontato il tema degli universi replicanti, apportando contributi o meglio proposte in grado di far capire, dalla prospettiva di uno scenario ultramondano e alieno, quale sia davvero la stoffa dell'universo da noi abitato, fatto di strade e di scarpe, di computer e di uova, della materia solida e del sushi di tutti i giorni. Ci hanno anche fatto balenare l'idea dell'immortalità, di un'immortalità semplice e inevitabile, che si attiva ogni volta che "qualcuno" muore: perché, nell'ipotesi fin qui delineata, muore il "qualcuno" che vive in questo nostro universo; ma riprende vita rigogliosa in un'altra realtà, o continua un'esistenza esitante ma vivo, il "qualcuno gemello" che si era sdoppiato un attimo prima dell'ultimo respiro; il quale continuerà a esistere fin quando, giunto anche lui all'istante suo supremo, non scaglierà un ulteriore doppione in una realtà ulteriormente diversa, dove il nuovo essere permarrà vivendo la sua vita fino a quando non abbandonerà anche lui il suo mondo terreno... proiettando un'ennesima copia di sé in un ennesimo altrove, così via continuando e riproducendosi a scatti, altrove e ovunque, e altrove e altrove, in un infinito processo di replicazione che concettualmente rende il "qualcuno originario" un errante impigliato in perpetuo nella rete complicata di infinite dimensioni incomunicanti. Nell'impossibilità di morire davvero.

 

 

Follie? A prima vista sembrerebbe; a un secondo sguardo si direbbe di no, perché a raccontare queste cose – con serietà, formule matematiche ed esperimenti reali, e non con l'incongruo svolazzo delle mie pagine – è il fior fiore di una generazione di cervelluti scienziati. Il fatto è che anche in questo caso la verità è un po' più complessa di come apparirebbe comprimendola in una rispostina banale, perché dipende da una serie di eterogenei fattori, primi dei quali le predilezioni e la coscienza stessa di chi la pensa, in omaggio al famoso "principio antropico", figlio dell'altrettanto celebre "gatto di Schroedinger", secondo cui le cose sono, o meglio, diventano quel che sono soltanto dopo che sono state osservate o sono state pensate. Sembra di essere ai limiti del concepibile, ma se si rinuncia all'assurda pretesa di capire i formalismi matematici, si avrà la sorpresa di ritrovarsi in un mondo soave, un po' magico e fatato, accessibile e più lietamente intuibile.

Il problema di fondo, con tutte queste cose, è che da qualche tempo la scienza, e in particolar modo la fisica si muove senza remore in territori che potremmo chiamare delle questioni estreme. Si è messa ad esempio a ripercorrere a ritroso i primi millesimi di secondo dopo quella fragorosa esplosione muta universalmente nota come Big Bang all'origine del Tutto, per dedurre come fosse fatto il Nulla che pare l'avesse preceduto. Oppure vuol capire che cosa succederebbe se ci si spostasse davvero "in un batter d'occhio", cioè muovendosi da una parte all'altra dello spazio alla velocità della luce: non che qualcuno abbia ancora costruito automobili o treni veloci di questa potenza, ma solo per trovare ulteriori conferme o nuovi sviluppi alle idee che aveva bizzarramente messo assieme Einstein immaginando cose che è impossibile vedere. Oppure ancora, la sempre dispettosa fisica teorica prova a definire quando finirà, seppur mai finirà, l'universo futuro, tra varie decine di miliardi di anni, imponendoci scenari talmente assurdi ma affascinanti che mettono addosso una voglia matta di andare a controllarli, se davvero riuscissimo – come adombra in altra parte quella stessa teorica scientifica – a costruire delle macchine per viaggiare nel tempo (e peggio per noi se, da come si prospetta l'argomento, un giorno forse riusciremo a viaggiare nel passato ma non potremo mai correre un po' più veloci di noi stessi tanto da precederci nel futuro). Imprese, queste di approfondire la realtà dei limiti, tutte strenuamente perseguite da alcune delle migliori intelligenze che abbiano visto la luce su questo pianeta nel corso del Novecento.

Questioni probabilmente geniali, si dirà, ma sostanzialmente inutili per capire il senso dell'esistenza, aiutarci risolvere i problemi della vita quotidiana, orientarci all'interno della gamma multistratificata delle scelte etiche e sociali. E invece no dice qualcuno, come ad esempio Giuseppe Vatinno, l'autore di un libro la cui lettura ha dato la stura a queste mie considerazioni; si tratta di faccende che, in un futuro assai più prossimo di quel che si sospetterebbe, potrebbero avere ricadute anche molto concrete: anzi, che alcune ricadute ce l'hanno già, sul modo attuale di pensare e quindi di definire, affrontare e risolvere una serie di problemi individuali e collettivi.

Vatinno dice bene, perché in sostanza è un matematico e un fisico, e dunque non ha difficoltà a seguire le arditezze delle teorie fisiche; è un esperto di problemi ambientali, e dunque sa in quali contesti collocare correttamente le spinte futuriste o i modelli attuali per interpretare la realtà naturale circostante; è un politico con un campo d'azione nazionale, e quindi riesce a dare un senso e una dimensione sociale a queste conquiste del pensiero e della cultura. Ma a chi non è così direttamente coinvolto, che cosa può dare e che cosa lascia tutto questo? Probabilmente una leggera vertigine, nell'avvertire il contrasto tra l'impulso a farsi assorbire dagli scenari di spazio e di tempo infiniti, ai confini dello spazio e del tempo, e l'istintivo timore di muoversi soli al di là di ogni limite, in un territorio sconosciuto senza spazio e senza tempo. Ma soprattutto qualche considerazione sull'intricato itinerario scientifico che occorre tracciare per avvicinarci alla comprensione degli elementi fondamentali, cioè l'essere e il nulla; un itinerario delineato, sorprendentemente, più da coloro che operano negli spazi tra una disciplina e l'altra e gettano ponti sulla terra di mezzo per ridurre le distanze reciproche, che dagli esperti in una sola scienza – fisica, matematica, astronomia, biologia o quel che sia – inabituati spesso e spesso non attrezzati a rivolger lo sguardo oltre le pareti che delimitano i perimetri della propria stanza. Uno sforzo comune, non comune, essenzialmente inteso a seguire consapevolmente l'evoluzione dell'universo e il passaggio del pensiero al suo interno. Una sorta di visione allo specchio.

Giuseppe Vatinno: Il Nulla e il Tutto. Le meraviglie del possibile. Armando Editore, Roma 2012, pagg. 176, € 14,00.

 

Massimo Biondi

 

Ultima modifica il Mercoledì, 05 Dicembre 2012 15:24
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