L’analisi dei resti scheletrici e l’analisi genomica dei Fuegini, conservati presso il Museo di Antropologia Giuseppe Sergi della Sapienza, ha mostrato che l’adattamento alle basse temperature di questa popolazione era determinato da due particolari varianti genetiche che determinano una attivazione del grasso bruno. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports da un gruppo di ricercatori dei Dipartimenti di Medicina Sperimentale, Biologia ambientale e di Medicina molecolare dell’Ateneo romano
Nel 1881 Science pubblicava un articolo sulle testimonianze dei viaggi dei primi esploratori nella Terra del Fuoco, incluse quelle di Charles Darwin che nel 1871 aveva descritto gli abitanti dell’estremo sud della Patagonia nel libro The Descent of Man. Uno dei tratti distintivi degli uomini che vivevano in quella terra lontana e inospitale era una incredibile resistenza al freddo, anche a fronte di sistemi di protezione insufficienti. La peculiarità di questi uomini, detti Fuegini, di essere spesso nudi o al massimo coperti da un pezzo di pelle gettato sopra le spalle, colpì infatti i primi viaggiatori europei.


Una nuova area di età arcaica appartenente a una comunità di tradizione pre-agricola è stata scoperta nella penisola di Samanà, a nord-est della Repubblica Dominicana. Il rinvenimento è avvenuto nell’ambito della Missione Archeologica e Antropologica Sapienza nell’Arcipelago Caraibico coordinata dal Dipartimento di Storia, antropologia, religioni, arte e spettacolo della Sapienza, con il contributo del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale (MEACI) ed il supporto dell’Ambasciata della Repubblica Dominicana di Roma
Le informazioni archeologiche relative al primo popolamento delle isole del Centro America sono piuttosto scarse. Gli unici dati che abbiamo risalgono all’incirca a cinquant’anni fa e sono stati ottenuti a seguito di ricerche sporadiche condotte in maniera non totalmente scientifica e pubblicate non sistematicamente. Inoltre l’insediamento successivo di gruppi agriculturalisti che hanno popolato l’Isola Hispaniola ha contributo a cancellare le tracce del popolamento più antico, soprattutto nelle isole maggiori.


Ossa e denti come archivio biologico individuale: il nuovo studio bioarcheologico che riscrive una delle pagine più affascinanti dell’archeologia del Mediterraneo Pithekoussai e la Tomba della Coppa di Nestore.


Pithekoussai, il più antico insediamento dei Greci nel Mediterraneo Occidentale (VIII secolo a.C.), sull’isola di Ischia (Golfo di Napoli), a quasi 70 anni dai primi ritrovamenti torna a essere al centro di nuove importanti scoperte. Sotto la direzione della Soprintendente per l’Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’Area Metropolitana di Napoli, Teresa Elena Cinquantaquattro, coordinatrice e direttore scientifico del progetto, i ricercatori dell’Università di Padova, dell’Università l’Orientale di Napoli, del Servizio di Bioarcheologia del Museo delle Civiltà di Roma, dell’Università del Kent e di Roma La Sapienza sono tra gli autori di uno studio interdisciplinare che getta nuova luce su una delle pagine più importanti dell’archeologia della Magna Grecia. Oggetto della ricerca, la cosiddetta Tomba della Coppa di Nestore (Cremazione 168).

La Tomba della Coppa di Nestore fu portata alla luce dall’archeologo e scopritore dell’antica Pithekoussai, Giorgio Buchner, nel corso delle campagne di scavo tra il 1954 e il 1955 e deve il suo nome a una kotyle d’importazione della Ionia settentrionale (ultimi decenni VIII sec. a.C.), recante la celebre iscrizione: “Sono la coppa di Nestore, buona a bersi. Chiunque berrà da questa coppa sarà preso da Afrodite dalla bella corona”. I tre versi dell’iscrizione alludono alla famosa coppa descritta nell’Iliade di Omero e sono ritenuti tra le più antiche attestazioni della tradizione omerica.


Un team internazionale guidato da scienziate e scienziati dell’Università Ca’ Foscari Venezia e dell’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche ha letto nei composti chimici depositati nel ghiaccio l’andamento degli incendi di cinquemila anni. Il lavoro è pubblicato su Climate of the Past.
Per la prima volta, grazie all’analisi di una carota di ghiaccio prelevata nella costa est della Groenlandia, a Renland, è stata ricostruita la storia degli incendi che hanno interessato le foreste islandesi negli ultimi 5mila anni. La scoperta è di un’équipe internazionale guidata dall’Università Ca’ Foscari Venezia e dall’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isp), che ha pubblicato i risultati sulla rivista Climate of the Past, aggiungendo un tassello fondamentale alla comprensione dei legami tra incendi, clima e azione dell’uomo.


Il ghiaccio porta infatti impressa l’impronta della storia climatica e ambientale del nostro pianeta e permette di risalire a informazioni di secoli e millenni addietro relative a temperature, eruzioni vulcaniche e anche incendi. “Analizzare i composti chimici presenti nelle carote di ghiaccio prelevate in aree polari aiuta a ricostruire aspetti climatici ed eventi atmosferici del passato”, conferma Andrea Spolaor, ricercatore del Cnr-Isp. “In questo caso parliamo di composti quali black carbon, ammonio e levoglucosano, emessi durante la combustione di biomasse. Misurando questi traccianti abbiamo scoperto che nell’alto Nord Atlantico, che comprende le coste Nord-Est, Sud-Est e Sud-Ovest della Groenlandia e l’Islanda, oltre 4.500 anni fa si sono verificati dei cali di incendi grazie a una diminuzione dell’insolazione estiva, con conseguente avanzare dei ghiacciai e diradarsi della vegetazione”.


Studi sugli uomini di Neanderthal e su quelli di Denisova erano già stati effettuati in passato, e si era visto che tracce del DNA di quest'ultimo sono ancora presenti nelle attuali popolazioni di Papua Nuova Guinea e nelle Isole del Sud Est Asiatico. Ora, un team di ricercatori del CNRS, dell'Université d'Aix Marseille e dell'Establissement Francais du Sang (EFS), hanno sequenziato il genoma di un uomo di Denisova e di tre donne di Neanderthal vissute da 100.000 a 40.000 anni fa per identificarne il gruppo sanguigno- I ricercatori si sono concentrati sui sette gruppi sanguigni importanti per le trasfusioni di sangue (A, B, AB e 0), inclusi H/Se ed il fattore Rh. Va ricordato che i nostri attuali parenti più prossimi, gli scimpanzè, sono di gruppo A, mentre i gorilla di gruppo B. Questi ominidi invece mostravano tutte le varianti A, B, 0; in particolare, i Neanderthal esaminati avevano un unico allele Rh assente in quasi tutta la popolazione umana moderna ad esclusione di un aborigeno ed un papuano.

 


L’analisi del tartaro preistorico di 44 individui provenienti da siti archeologici italiani e balcanici ha permesso di confrontare le abitudini alimentari dei cacciatori-raccoglitori-pescatori del Paleolitico e Mesolitico con quelle dei primi agricoltori del Neolitico e di individuare una specie batterica del cavo orale la cui variabilità genetica permette di ripercorrere le migrazioni dei primi agricoltori. I risultati dello studio coordinato dalla Sapienza Università di Roma nell’ambito del progetto ERC Starting Grant HIDDEN FOODS sono stati pubblicati sulla rivista PNAS.


Il tartaro dentale, da sempre considerato un grande nemico della nostra salute orale, negli ultimi anni è diventato oggetto di studio della bioarcheologia, rivelandosi uno strumento fondamentale per la ricerca sulle abitudini alimentari e lo stile di vita di individui che vivevano in epoca preistorica. Infatti, durante il processo della sua formazione le cellule dei microrganismi che popolano il cavo orale (la cosiddetta flora batterica), le microscopiche particelle di cibo e anche strutture vegetali e/o animali e le loro molecole di DNA, possono essere intrappolate e conservate per millenni.


Il recente ritrovamento di resti fossili nel sito israeliano di Nesher Ramla, riconducibili a un possibile antenato dei Neanderthal, porta alla luce il ruolo di popolazioni del Vicino Oriente nell’evoluzione di questa forma umana estinta. Lo studio, che ha visto la partecipazione di ricercatori del Dipartimento di Biologia ambientale della Sapienza Università di Roma e del Museo di Storia Naturale dell'Università di Firenze, è stato pubblicato sulla rivista Science, che gli ha anche dedicato la copertina.


I Neanderthal sono la specie umana estinta che conosciamo meglio. Si è sempre pensato che la loro evoluzione fosse del tutto endogena, avvenuta interamente in Europa a partire da popolazioni del Pleistocene Medio, e che solo in seguito abbia previsto ondate di diffusione verso l'Asia.Oggi un nuovo studio internazionale, che ha visto la collaborazione anche di ricercatori del Laboratorio di Paleoantropologia e bioarcheologia del Dipartimento di Biologia ambientale, mostra come le cose potrebbero essere state, in realtà, molto più complesse.


Dall’analisi delle più antiche sequenze di DNA rinvenute in territorio calabro, risalenti ad oltre 3500 anni fa, sono emersi legami genetici con popolazioni siciliane vissute tra il Neolitico e l’Età del Bronzo.
Già durante l’Età del Bronzo esistevano scambi e forti legami tra le popolazioni che abitavano la Calabria tirrenica e quelle della Sicilia settentrionale. A rivelarlo è l’analisi di molecole di DNA estratte da resti ossei risalenti ad oltre 3500 anni fa e rinvenuti nel sito di Grotta della Monaca, in provincia di Cosenza. Gli esiti della ricerca – guidata dal team del Laboratorio del DNA Antico (aDNALab) dell’Università di Bologna – sono stati pubblicati sulla rivista Genes.


“Queste sequenze di DNA antico rappresentano la prima evidenza archeogenetica mai attestata in Calabria, nonché una tra le più antiche identificate nel Sud Italia”, dice Francesco Fontani, dottorando al Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna e co-primo autore dello studio. “Questa analisi ha permesso di evidenziare un legame genetico, trasmesso per via materna, tra le comunità di Grotta delle Monaca e le popolazioni coeve della Sicilia vissute tra il Neolitico e l’Età del Bronzo”.


L’analisi del DNA antico estratto da un reperto umano risalente a 17000 anni fa retrodata di almeno 3000 anni rispetto a quanto si era creduto fino ad oggi le migrazioni di gruppi dall’Europa orientale e dall’Asia occidentale che hanno contribuito a formare il genoma dei popoli europei contemporanei.

Le migrazioni preistoriche che hanno contribuito a formare il patrimonio genetico dei popoli europei contemporanei sono iniziate molto prima di quanto si era creduto fino ad oggi. Uno studio guidato da ricercatori dell'Università di Bologna, e pubblicato sulla rivista Current BiologyCurrent Biology mostra infatti che la diffusione in Europa meridionale, e in particolare in Italia, di componenti genetiche legate all’Europa orientale e all’Asia occidentale risale ad almeno 17000 anni fa, ovvero 3000 anni prima di quanto ipotizzato finora.

I più antichi uomini moderni che hanno abitato l'Europa, vissuti circa 45.000 anni fa, hann.o contribuito a formare il patrimonio genetico degli umani attuali, in particolare delle popolazioni dell'Asia orientale. E nei loro genomi sono emersi ampi tratti di DNA dell'Uomo di Neandertal
I primi Sapiens europei hanno contribuito alla formazione del patrimonio genetico delle popolazioni umane successive, in particolare - sorprendentemente - degli attuali abitanti dell'Asia orientale. Lo ha scoperto un team di ricerca internazionale sequenziando i genomi dei più antichi uomini moderni che hanno abitato l'Europa, i cui resti - datati con altissima precisione - risalgono a circa 45.000 anni fa e sono stati rinvenuti nella grotta di Bacho Kiro, in Bulgaria.


Nei genomi sequenziati, inoltre, gli studiosi hanno identificato ampi tratti di DNA dell'Uomo di Neandertal, da cui emerge che questi Sapiens avevano avuto antenati Neandertaliani nel loro albero genealogico, tra 5 e 7 generazioni precedenti. Gli incroci tra Sapiens e Neandertal erano quindi probabilmente molto frequenti quando i primi esseri umani moderni arrivarono in Europa. Questi importanti risultati – appena pubblicati su Nature – nascono da un ampio lavoro di ricerca, coordinato da studiosi del National Archaeological Institute with Museum - Bulgarian Academy of Sciences (Bulgaria) e del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology (Germania), a cui ha collaborato anche l’Università di Bologna con la professoressa Sahra Talamo, direttrice del nuovo laboratorio di radiocarbonio BRAVHO (Bologna Radiocarbon laboratory devoted to Human Evolution).

 

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