L’ultima guerra l’aveva lasciato con una buona metà di ossa e carni sostituite da impianti cibernetici, prevedibilmente di seconda mano e incorporate con ogni genere di virus informatico che si potesse diffondere nelle moderne apparecchiature per cyborg. Un’altra persona, al suo posto, sarebbe durata al massimo un paio d’anni. Ma Emil era riuscito a trasformare quell’apparente handicap, come l’iniziale odio per quel corpo così irrimediabilmente trasfigurato, in straordinarie risorse per diventare ciò che era oggi. E niente come quell’insolito soprannome che gli avevano affibbiato avrebbe potuto definire meglio l’attuale condizione di Emil. Ormai era più un luogo che una persona. Aveva imparato, dopo mesi di esercizio e confidenza con i server che regolavano le sue protesi e i suoi circuiti, ad autoreplicare quelle parti di sé che erano frutto della tecnologia fino a estenderle a dismisura per inglobare ogni componente elettronico della sua abitazione. Il risultato era un accostamento fra un gigantesco computer vivente in continua evoluzione e ampie chiazze di tessuto organico mollemente spalmate su di esso. Al centro della Stanza ciò che restava del volto di Emil Moore, assieme a un’intricata e inaccessibile sequenza di filamenti meccanici, proteggeva quell’ineffabile cervello che ancora funzionava brillantemente, alimentato dalla corrente dell’intera città a cui erano connessi clandestinamente i circuiti di Emile. Da lì, quell’incrocio fra mente organica e artificiale era in grado di gestire tutte le sempre più complesse funzioni di quello che, oltre al suo stesso organismo, costituiva il quartier generale delle sue operazioni. E quale ironia, che proprio colui che aveva fatto della sua condizione di uomo-macchina la chiave per rinascere come una creatura nuova, si occupasse proprio di separare le componenti meccaniche da quelle umane nei suoi pazienti. Per la verità, questa non era la sua occupazione, si trattava più di un passatempo volontario, forse il modo più dilettevole per restituire alla società i debiti che contraeva succhiandole ad ogni istante una goccia di linfa vitale. Il paziente era giunto in prossimità della Stanza, provvisto del requisito fondamentale per un individuo che richiedesse un simile servizio. Era un cyborg. Un essere a metà fra uomo e androide. Ogni sistema e apparato del suo organismo era una compenetrazione di cellule animali, con muscoli, pelle e tendini, e sofisticati macchinari che ne imitavano e completavano il funzionamento, regolati da un computer centrale che lavorava in simbiosi con il cervello umano. E l’aspetto esteriore tradiva inevitabilmente quella diversità interiore. Il sordo cigolio metallico di un braccio meccanico, la lucida perfezione di una gamba androide, e gli occhi. Quegli occhi che non avevano mai un colore fisso, mutevoli come la pelle di un camaleonte, ogni volta che i programmi interni erano impegnati in una differente attività. Persino il suo nome, il nome che finora aveva adottato come emblema della sua condizione, non faceva che rammentare in maniera ancora più eclatante quell’inevitabile dualismo. Martin C-4, il nome di un essere umano e quello di un androide assieme. Ora quel cyborg aveva attraversato i labirinti della metropoli, desideroso di essere accompagnato finalmente in quello stabile confine rappresentato dalla determinatezza, da una netta ed esplicita separazione fra parti umane e parti androidi. Ma, allo stesso tempo, ansioso di effettuare quel radicale cambiamento di identità nel più assoluto segreto, nella riservatezza che si poteva auspicare solo con i trattamenti illegali della Stanza. Questa con un gemito dei suoi chip periferici aprì le proprie porte e fece penetrare l’ospite nei meandri del suo inaccessibile e occultato essere. Lembi di carne interconnesse a braccia artificiali allungarono una serie di pannelli metallici al teso e spaesato visitatore per garantirgli un pratico appoggio che a seconda delle necessità sarebbe stato adattato a sedia o a tavolo operatorio. La stanza emanò un alienante surrogato di voce, sgradevole sia al timpano umano che a quello androide.
“Necessarie informazioni di conferma prima di iniziare con il Trattamento Legione. Quando avrai detto di sì, e l’operazione sarà iniziata, non potrai più tornare indietro. Sei cosciente di questo?”
Il paziente respirò a lungo. Un bagliore verdastro illuminò l’occhio di destra.
“Sì. Sì, ne sono cosciente.”
“Sei cosciente che questo tipo di trattamento è illegale, se svolto all’interno di questa struttura?”
Certo che ne era cosciente. Avrebbe potuto pagarsi le più prestigiose cliniche private per sottoporsi a un Trattamento Legione autorizzato dalla legge. I trattamenti Legione erano proprio nati dalle pressioni dello Stato. Le autorità avevano già abbastanza difficoltà a gestire una collettività fatta di uomini e androidi, figuriamoci di cyborg, che con la loro natura ibrida mettevano in crisi le convenzioni istituite apposta per distinguere i due differenti gruppi entro confini precisi e controllabili. Di fatto, i trattamenti Legione che si svolgevano alla luce del sole non erano solo autorizzati, erano addirittura consigliati. E certamente godevano di una maggiore efficienza e presentavano assai meno rischi. Ma all’ospite della Stanza non interessavano tanto la sicurezza e l’efficienza, quanto la discrezione. Scosse il capo senza riuscire a trattenere un sibilo metallico.
“Sì, sono cosciente anche di questo.”
“Bene. Sei cosciente che, al termine di questa operazione, e ovviamente nel caso non si dovesse riscontrare alcun tipo di complicazione imprevista, non avrai subito una semplice sostituzione di parti del corpo? Sarai una persona completamente diversa. La tua identità ne uscirà sensibilmente alterata. Sei cosciente di questo?”
L’altro sembrò sorridere.
“Sì.”
“Ultima informazione necessaria. Quale componente vuoi che venga preservata e integrata con i nostri innesti? Organica o Cibernetica?”
Martin C-4 Aveva stretto i denti e ripetuto intere sequenze dei suoi programmi interni per rispondere a quella domanda.
“Nessuna… nessuna particolare preferenza. Decidi tu, purché alla fine ne resti una. Solo una.”
La risposta della Stanza si fece attendere per qualche secondo.
“In tal caso, deciderà questa struttura, in base all’entità del legame fra le due componenti. Accetti questa soluzione?”
Ancora una volta, l’altro rispose affermativamente.
“Avvio del procedimento in corso.”
Un groviglio di filamenti stretti come cinghie avvolse il corpo del cyborg. Mentre la sua parte umana iniziava ad essere sommersa dall’ansia, la parte androide tranquillizzava l’altra con fulminei e complessi calcoli di probabilità e schemi logici tesi a dimostrare l’inconsistenza di qualsiasi timore irrazionale e a confortarla dalle preoccupazioni. D’improvviso, Martin C-4 realizzò che presto non avrebbe più potuto essere partecipe di quel singolare rapporto che costituiva ogni sua decisione e ogni sua reazione. In fondo, la sua parte androide e quella umana erano come due amanti, l’una che traeva giovamento dalle differenze dell’altra. E ora stavano per essere separate. Solo una sarebbe rimasta, con la sola compagnia di una nuova e, chissà, maggiore consapevolezza di se stessa.
Il lettino di pannelli metallici fece un brusco scatto all’indietro, sistemandosi in posizione orizzontale. Da quello che si sarebbe potuto definire il soffitto della Stanza, quattro differenti braccia meccaniche articolate ognuna in almeno dieci funzioni specifiche si mossero simili a goffi e rumorosi tentacoli verso il corpo di Martin C-4. Uno di essi lo sottopose a una rapida e accecante scansione, al termine della quale l’intero luogo sembrò essere attraversato da un’inedita gamma di suoni e sfumature. Il secondo braccio si aprì in dodici tamponi coronati ognuno da un minuscolo ago di sostanza anestetica. Come i denti di un esercito di topi assalirono senza troppi complimenti il tessuto organico del cyborg, mentre dal terzo braccio, saldatosi alle sue tempie come una cuffia, cominciarono a partire una serie di impulsi positivi per il cervello androide, prontamente tradotti in messaggi per la controparte umana, che lentamente perdeva conoscenza. L’ultima cosa che Martin C-4 vide fu il lampo aggressivo di un laser che veniva attivato. Aveva un suono agghiacciante, sembrava un trapano. Un fischio angosciante che progressivamente veniva rimpiazzato da immagini del passato, da sagome familiari e voci amiche. Gli incubi di un uomo sveglio cedevano il passo ai sogni di un androide addormentato.
Giorno: 20 novembre
Inizio sessione.
Ciao.
Ciao. Oggi ti ho visto, in tv. Avevi qualcosa di strano… Sembrava che ti fossi perso. I flash delle fotocamere si riflettevano sui tuoi occhi come fuochi d’artificio, ma non smettevi di fissare diritto davanti a te. Come se stessi cercando qualcuno. O qualcosa.
Forse è così. Qualcosa che ultimamente ho perduto. Una certezza.
Ti va di parlarne?
Con te sì. Sei l’unica persona con cui mi possa aprire. Ah, che assurdità… Ti ho chiamata persona. Chi ha detto che sei una persona? Potresti essere una macchina. Androide o essere di carne e ossa? Queste nostre conversazioni virtuali vanno avanti da settimane e non l’ho mai capito. E’ stata la prima cosa che ti ho domandato, quando il segnalatore ha intercettato la tua richiesta di comunicazione.
E ricordi cosa ti ho risposto?
“Se è davvero importante, non hai bisogno che te lo dica. Verrà fuori da sé.” Ma non è stato così.
Allora forse non era importante.
Mi hai raccontato così tante cose di te… Dove sei nata, che cosa fai nella vita. Quali vestiti preferisci indossare la mattina per andare al lavoro. Ma mai niente che mi aiutasse a capire…
Informazioni non necessarie.
Ecco. Come sempre. Linguaggio telegrafico, da computer. Oppure lunghi periodi, frasi elaborate che traspirano emotività. Umanità. Alterni due diversi linguaggi, due diverse nature nello stesso discorso. Quale delle due rappresenta il tuo reale essere?
Forse nessuna. Forse entrambe. Come per te.
Già. Come per me.
C’entra con questo, il tuo problema?
La mia identità. Pensi che un individuo, uomo o macchina che sia, possa vivere senza?
Il punto non è questo. Lo sai bene. Il punto è qual è la tua, di identità.
Sono nato uomo, non macchina. Questo dovrebbe aiutarmi a capire. A scegliere. Ma non è mai stato così. Se solo potessi scovare quel giorno, quell’ora, quell’istante fra i tanti, in cui la prima fibra di un ragazzo identico a tanti altri ha cominciato a pensare come una macchina, ad assomigliare a una macchina. Sai, all’inizio lo nascondevo. Crescevo come un qualsiasi adolescente, in fondo, solo con due voci nella coscienza. La voce che avevo sempre udito fin dalla nascita, e quella di un computer che senza pudore mi confessava di essere sempre stato dentro di me. Che con i suoi comandi trasformava i miei arti, il mio cuore, le mie sensazioni, affinché almeno una metà somigliasse e obbedisse ai suoi comandi. In una lenta e pacata infinità di impercettibili mutamenti, sottili ma pungenti come soffi, mi aveva reso un cyborg. Uno di quegli scherzi della natura che danno un oggetto concreto alla curiosità e al disprezzo, alla meraviglia e al ribrezzo. Non un essere umano con parti del corpo cibernetiche, come i mutilati di guerra, ma un vero e proprio ibrido. Generato in una forma, cresciuto in un’altra. Come una malattia. E’ di questo che si tratta, una malattia?
Io non credo che tu sia una malattia.
Non sto dicendo che sono una malattia. Sto dicendo che ho una malattia. Perché devo essere così arrogante da negarlo?
Tu stai dicendo che essere un cyborg è una malattia. E tu sei un cyborg. E’ molto diverso dal dire che sei una malattia? Accettare se stessi non è arroganza.
Mmh… Credo di aver detto qualcosa del genere, in uno dei miei primi discorsi.
Sì. Me lo ricordo. Sei riuscito a pronunciare alcune delle parole più belle che abbia mai sentito. Per questo ho voluto mettermi in contatto con te. Volevo sapere se ci credevi davvero.
Un tempo, forse. Ma adesso… Te l’ho detto. Ho perso qualcosa.
Tu sei un simbolo. Sei un escluso fra gli esclusi che è riuscito a diventare una celebrità. Hai dimostrato che non solo è possibile vivere nelle tue condizioni, ma è anche possibile insegnare qualcosa alla società che ti circonda. Qualcosa di nuovo.
La verità è un’altra, e se hai capito qualcosa di me in queste nostre conversazioni, dovresti saperlo. Io sono un doppio, due idee che si fingono una. Il mio vero conflitto non è mai stato fra androide e uomo, ma fra quel lato di me che vuole accettare ciò che sono, e un altro, oscuro, appiccicoso e chiassoso, che è convinto del contrario. E’ convinto che i fanatici, gli ottusi, i reazionari e i bigotti in fondo abbiano ragione. Hanno sempre avuto ragione. Io non sono il paladino di un nuovo modo di essere, ma semplicemente un povero sfortunato con un problema che non vuole ammettere. E in tutti questi anni ho voluto dare ascolto solo alla voce più rassicurante, gridarla così forte che chiunque potesse sentirla, e soprattutto in modo che io non potessi ascoltare quell’altra.
Ma è la tua voce, quella che ti considera una malattia? O è la voce di quella società malata di autismo, che non è in grado di accoglierti per ciò che sei?
Farebbe davvero una gran differenza? Chi sono io per scolpire la società a mia immagine? Non dovrei essere io, a modellarmi nel modo che richiede la società?
Allora l’identità sarebbe un’illusione?
La mia identità è un’illusione.
Non pensi una cosa del genere. Non ci credo.
Sì, invece. Ho cercato di negarlo troppo a lungo. Tutti i miei tentativi di allontanare qualsiasi dubbio, non hanno fatto che attirarli ancora di più addosso alle mie certezze. E’ un assedio senza uscita, e voglio che abbia fine. Sì, presto avrà fine.
Di che stai parlando?
C’è una soluzione.
Stai parlando dei trattamenti Legione? No, non farlo, non arrenderti! Non è la soluzione, tu non hai bisogno di interventi chirurgici e soprattutto non hai bisogno di una cura! Non si può vivere dopo aver strappato e buttato via una parte di sé! Danno irreparabile, Martin C-4! Danno irrep…
Il contatto Martin c-4 si e’ disconnesso.
Sessione chiusa.
Giorno: 15 novembre
L’aria del soggiorno odorava di tabacco e di euforia appassita. Intorno agli ultimi tre partecipanti rimasti aleggiava un frustrante senso di ignavia compiaciuta e di voluttà repressa. Martin C-4 sedeva al centro, con la gamba cibernetica pigramente appoggiata sul bordo del tavolo. Alla sua destra e alla sua sinistra, i due opposti. Cat, la donna che avrebbe preferito nascere androide. TS-6, l’androide che avrebbe preferito nascere donna. Cat giocherellava con il suo palmare mentre sorseggiava con indifferenza il cocktail che le aveva servito TS-6, mentre l’altra, morbidamente sdraiata sui gomiti lungo il tavolo, stava nutrendo il mucchietto di ceneri accanto a lei con un’altra sigaretta. Martin le adorava entrambe, fin dal momento in cui le aveva conosciute, quasi nello stesso giorno. Adorava ascoltare e discutere i problemi, le sotterranee paure e le appaganti gioie di ciascuna, ma soprattutto lo affascinava vederle insieme, come adesso, due esseri in relazione, non eccessivamente distanti, ma neanche confuse l’una con l’altra. Come persone, poi, possedevano quella straordinaria capacità di umiliare le convenzioni con la loro semplice esistenza. Se si fossero unite assieme, probabilmente, avrebbero dato origine a un poliedrico, complementare e femminile Martin C-4.
Martin era indubbiamente attratto da loro, ma quale parte di sé era attratta da chi? TS-6, con la sua eterea perfezione fisica, le forme tratteggiate armoniosamente da sofisticati programmi interni, le battute spiazzanti, ma anche la sua ostentata, provocatoria emotività, la sua perenne e illogica insoddisfazione. Cat, con il suo portamento ascetico e dimesso, la sua personalità ricca di idee ma che troppo spesso apparivano costruite, prive di anima, quasi frutto di un freddo calcolo anziché delle reazioni di un corpo umano. Nel contemplarle, Martin si rendeva conto una volta di più che nessun rapporto, per quanto intenso o profondo che fosse, era mai riuscito a coinvolgere la totalità del suo essere. Fatta eccezione, forse, per la sua segreta, misteriosa interlocutrice virtuale.
“Accidenti, che bella festa, era meglio se mi resettavo e risparmiavo un sacco di energia!” Come di consueto, TS-6 modellava l’emissione della sua voce in base all’emozione che voleva trasmettere nei suoi interlocutori, col risultato che ogni singolo commento dell’androide era impossibile da fraintendere e da ignorare.
Cat staccò per un secondo lo sguardo dal palmare. “Non ti sei divertita, TS? Strano, mi pareva di sì.” Il tono della domanda era misurato, flemmatico, controllato.
“Ah, fanculo, questi ricevimenti! Sono tutti uguali… Un branco di ferraglie con l’antivirus inceppato e di tossicomani falliti in crisi di astinenza che giocano a trovare qualcuno messo peggio di loro… Che abbiamo fatto di male?”
“C-4 ti invita perché pensa che ti piacciano queste feste.” Questa volta Cat, vagamente sarcastica, neanche si distolse dal palmare.
TS-6 si voltò verso Martin e lo vide che tamburellava con le dita sul ginocchio metallico, offuscato da un’enigmatica malinconia, friabile e trasparente come una bolla di sapone. L’androide gli si avvicinò e, accoccolata come una gatta, fermò il volto immediatamente sopra il ginocchio del cyborg, che ne incrociò i grandi e limpidi occhi. Martin vide sul volto di TS-6 i segni non ancora cancellati della pittura rosacea con cui aveva cosparso ogni centimetro della sua pelle diverse settimane addietro. TS diceva che l’aveva fatto per vedere se sarebbe assomigliata di più a una donna.
Lei fissò a lungo l’amico con un sorriso pungente.
“Neanche tu ti sei divertito, eh, Marty? Il prezzo della fama.”
“No… no, è andato tutto bene, stasera. Solo che, ecco… Non so… Sono un po’ di giorni che mi sento… confuso.”
Di colpo, l’attenzione di TS-6 si rivolse verso Cat, ancora in trance di fronte al palmare. Con un gesto incollerito della mano, TS-6 strappò alla donna il suo prezioso strumento e lo fece cadere a terra. Colta alla sprovvista, alterata e disorientata, Cat si volse ripetutamente prima verso il palmare, poi verso TS, quasi stesse aspettando di decidere l’atto giusto da compiere, la replica migliore da opporre.
“Perché devi sempre fare così?”, Cat sembrava urlare più per il ragionevole scopo di farsi sentire da TS che per un sincero moto della propria ira, “Stavo lavorando!”
“Lavoro, cazzo, sei appena stata a una festa e già ti rimetti a lavorare? Cosa sei, un dannato computer?!”
Cat fece un lungo sospiro. Si chinò per raccogliere il palmare.
“Già, forse. Di certo tu non sembri un computer.” La donna volse il capo verso Martin C-4.
“C’è chi può permettersi di essere entrambe le cose.”
Martin abbassò il ginocchio e si scrollò le spalle. Guardò Cat incuriosito.
“Uomini e androidi, che strano. Pensare che un tempo c’erano solo gli uomini. Perché non mi spieghi com’è andata, Cat? Come ci siamo ritrovati nel mondo incasinato di oggi?”
Martin C-4 aveva già una confidenza non indifferente con quelle elementari nozioni di storia, gli era stato necessario impararle e approfondirle per sostenere i saggi, le conferenze e gli interventi pubblici che lo avevano reso il cyborg più famoso della cronaca recente. Ma aveva l’impressione che ascoltarle di nuovo dalla bocca di Cat avrebbe sortito l’effetto di un balsamo sulla sua coscienza, che l’avrebbe ripulita e rinfrescata dai dubbi, così da poter riordinare ogni pezzo al giusto posto. Lei, d’altro canto, era sempre disponibile per questo tipo di spiegazioni, le ripeteva con entusiasmo e dovizia di particolari, quasi come un computer è ansioso di mostrare l’efficienza delle sue funzioni ogni volta che viene premuto il pulsante di accensione. Anche TS-6 si sistemò al centro del tavolo con le gambe incrociate, colta da un improvviso interesse. Un interesse che non era dovuto tanto al desiderio di farsi guidare da quelle parole in conclusioni fino ad allora ignote, quanto piuttosto all’aspettativa di veder riconfermate una per una le proprie personali convinzioni. Cat si prese un attimo di tempo per raccogliere e riordinare lo straordinario bagaglio delle sue conoscenze, poi incominciò.
“Beh, è difficile dire se gli androidi siano stati creati oppure no. Un po’ come gli uomini non sono certi di essere stati creati da Dio, probabilmente. Di sicuro, le prime intelligenze artificiali, costruite secoli fa, erano un prodotto dell’uomo. Quando cominciarono ad utilizzare i primi androidi nelle fabbriche, per i calcoli più elaborati, per le operazioni più rischiose… molti protestarono, sostenevano che non era giusto schiavizzare altre forme di vita, per quanto artificiali. E avevano ragione. Ma finché la loro programmazione rispondeva passivamente agli ordini dei costruttori, faceva comodo considerare gli androidi non esseri senzienti, ma strumenti, computer molto avanzati. E poi, un giorno… non si sa come, non si sa quando, avvenne qualcosa di imprevisto. Gli androidi cominciarono a… riprodursi, in un certo senso. Tanto erano sofisticati i loro algoritmi e i loro programmi, che iniziarono a replicarne un’intera generazione, questa volta autonoma dai programmatori esterni. E il resto, beh… è storia. Adesso è una cosa normale riconoscere agli androidi la dignità di esseri viventi con il diritto di auto gestirsi. Ma ci sono volute le lotte sociali dell’ultimo secolo perché ciò accadesse. Tu lo sai meglio di me.”
“Già”, fece Martin C-4 con un tiepido cenno di assenso. “Ho partecipato a tanti di quei dibattiti e talk-show, ho fatto tanti di quei discorsi…”
“Una volta hai detto una cosa meravigliosa.”, Cat si protese verso Martin. Per la prima volta l’espressione della donna parve tingersi di autentica emozione. “Hai detto che la differenza tra uomini e androidi è un miraggio. Le azioni e le sensazioni degli androidi sono frutto del calcolo di un computer, delle sovrapposizioni di migliaia di programmi elettronici. Ma qual è la differenza con i calcoli del tanto decantato cervello organico? Gli androidi rispetto agli esseri umani sono solo più… trasparenti.”
“Mmh… e gli androidi sarebbero liberi di auto gestirsi? Ma da quando?.” TS si ridestò da un interesse che si era rapidamente trasformato in torpore.
“Solo un idiota potrebbe pensare che un androide sia libero solo perché non lo trattano più come un frigorifero o un aspirapolvere! Hanno dovuto rinunciare ai loro schiavetti, ma in qualche modo sperano di continuare a trattarli con il frustino da domatore… Ciò che veramente vogliono, è che gli androidi non diventino mai troppo simili agli esseri umani, perché hanno paura che così anche gli umani cominceranno a voler essere simili agli androidi! E allora è meglio confinare tutti in maschere, in macchiette ridicole. L’androide è così e cosà, e deve fare questo e quell’altro… Mai uscire dalla parte, altrimenti sarai solo un computer che si finge un uomo… o una donna!”
Cat si rabbuiò incrociando le braccia. Il comportamento di TS la infastidiva più del solito. L’altra notò che il suo enfatico sfogo non otteneva l’approvazione dell’amica e si rivolse verso Martin C-4.
“Ricordi cosa ti dissi quella notte, Marty? Quando tu eri ancora un ragazzino?” Il tono dell’androide si era fatto caldo, sensuale. Lei si fece lentamente avanti e si sedette sulle gambe del cyborg. Lui la guardava, gli occhi bionici cambiarono rapidamente di colore. TS premette dolcemente sulla nuca di Martin. Questi istintivamente la assecondò, aprendo una piccola fessura che dava sui suoi circuiti interni. TS iniziò a sussurrargli nell’orecchio.
“Tu mi dicesti che gli androidi non sanno fare l’amore. Ti risposi che non è vero. Possiamo condividere tutto di noi stessi. Ogni singolo programma.”
Le unghie di TS si sollevarono e alcuni impercettibili circuiti si fecero strada verso quelli di Martin C-4.
Lo schianto secco di un vetro infranto sul pavimento fece trasalire entrambi. Cat aveva rovesciato il suo bicchiere di cocktail. Come svegliatosi improvvisamente da un dormiveglia, Martin afferrò TS-6 all’altezza delle spalle e la allontanò delicatamente da sé, quindi rivolse uno sguardo quasi apprensivo a Cat. Lei si scusò per l’incidente mentre osservava la chiazza di liquido colorato espandersi fra le schegge cristalline.
TS-6 intanto era saltata sul divano dando le spalle agli altri due. Si stiracchiò acidamente e accese la televisione.
Martin C-4 carezzò la mano di Cat e la sentì più fredda della propria. Scrutò quel viso a prima vista noncurante, in realtà carico di chissà quali nascoste e contrastanti impressioni.
“Ehi, Cat. Su, dai, ci penso io a sistemare qui.” La donna con pacata decisione fece cenno di no. Il cyborg si insospettì nel vederla così misteriosamente assorta.
“Tutto bene, cara?”
Martin indicò TS con un cenno del capo. Di sicuro l’androide non li stava ascoltando.
“Non badare a lei. Sai com’è fatta, dopo una festa è sempre di pessimo umore. C’è qualcosa che non va?”
Cat assottigliò le labbra in un lieve sorriso.
“Sto bene, C-4, grazie. Forse sono solo un po’ stanca. Non preoccuparti.”
Martin era sicuro che stesse mentendo. Ma era altrettanto consapevole che per tutto il resto della serata non sarebbe riuscito a tirarle fuori una parola in più di quelle che aveva appena pronunciato. Dopo aver vanamente insistito un paio di volte per aiutare Cat a pulire, andò a fare compagnia a TS-6, che ovviamente non stava prestando la minima attenzione allo schermo di fronte a lei. Martin C-4 cominciò a girare i canali come alla vana ricerca di immagini che potessero colmare il vuoto di quell’incerta amarezza che ancora non accennava a lasciarlo in pace.
Il vertiginoso viavai di trasmissioni diverse si interruppe su uno dei più noti predicatori mediatici dei network internazionali, nemico giurato di Martin C-4. In quel momento si stava destreggiando esagitato in una tirata contro l’integrazione dei cyborg nella comunità. Il celebre parlatore sosteneva che l’esistenza degli “Uomini-Macchina”, come li chiamava lui, era dovuta all’eccessiva promiscuità fra esseri umani e androidi causata dalle emancipazioni degli ultimi decenni. In realtà nessuno poteva affermare con certezza come, quando o perché fossero comparsi i primi cyborg. Ciò dava a profeti e pensatori il pretesto per sdoganare la frottola che ritenessero più vicina alla verità. Secondo il celebre parlatore la soluzione al problema era una sana distinzione di compiti e un codice di rapporti ben definito fra le due categorie di persone. E per gli Uomini-Macchina già presenti, vittime del disordine sociale, augurava un percorso di “guarigione”, proprio come da un’influenza o da un osso rotto. Lo sproloquio ottenne la ricompensa di un applauso dal pubblico ospite in studio, a cui fecero eco le boccacce di TS-6 e i sospiri sconsolati di Martin C-4.
D’un tratto, i due furono richiamati indietro da un sibilo sordo, simile a un singhiozzo. Si volsero e videro Cat in lacrime. Stringeva saldamente con una mano una delle schegge di vetro più affilate. L’altra era incorniciata da una spaventosa quantità di sangue che fuoriusciva dal polso della donna. Martin e TS si alzarono sconcertati. Cat tentava disperatamente di reprimere le smorfie di dolore. Martin chiamò un’ambulanza, mentre la ferita di Cat continuava a grondare la più estrema prova del suo essere organico. TS-6 annaspava sconvolta, pareva che ogni suo sofisticato microchip fosse andato in tilt. Oscillava da una parte all’altra della camera come un automa, ripetendo il nome di Cat e chiedendo a Martin che cosa potessero fare. Lui si avvicinò alla donna e cercò di tamponarle la ferita. Avrebbe voluto essere un computer, neanche un androide, un vero computer, senza l’ostacolo di una programmazione che lo rendesse simile a un uomo, per poter aiutare l’amica, per dare una ragione a quella sua straziante impotenza. Si scoprì anche lui in lacrime. Non gli era mai successo, non credeva che quei suoi occhi androidi ne fossero in grado.
“Ma perché, Cat? Perché?” Lei lo guardò con i denti stretti, esausta per lo sforzo del trattenere il dolore.
“Dati insufficienti, C-4… Dati insufficienti.”
Giorno: 22 novembre Ore: 4 a.m.
Bruciava. Una parte del suo corpo era divorata dalle fiamme, ogni pulsazione impazzita in un lancinante, furioso ritornello. La risata maligna della luce trapassò occhi che sentiva nudi, indifesi. Cominciò a dimenarsi in convulsioni frenetiche arginate con pronta brutalità dalle cinghie del letto. Un gracchio grottesco e disperato vibrò da corde vocali che non avvertiva come sue. Le braccia meccaniche tutt’intorno si mossero per fronteggiare l’inaspettata emergenza. Un ago di sedativo si ruppe incastrandosi nella sua pelle. Un subitaneo getto di vapore umido fu sparato da quel chirurgo poco ortodosso su colui che un tempo era Martin C-4. Adesso non poteva più definirsi con quel nome, e provò un’immensa angoscia per questo spietato senso di vuoto e di incertezza. Al termine della doccia di vapore, gli unici pizzicori che ancora risultavano difficili da sopportare erano alle punte delle dita e nel naso. Il resto del corpo sembrava come accartocciato, ripiegatosi dopo un sonno durato millenni. Ma non era lo stesso corpo. Una serie di sensazioni nuove, perlopiù sgradevoli, gli si ripresentarono dopo anni di assenza. Bruciore agli occhi, nausea allo stomaco, gola secca. Ormai, quando La Stanza, al termine di una paziente attesa, lo riammise ufficialmente nel mondo dei vivi, le informazioni annunciate dalla voce del computer erano quasi superflue, tanto le novizie percezioni dell’ex cyborg le avevano intuite.
“L’operazione è riuscita. Il paziente è stato trasformato in un essere completamente organico.”
Giorno: 23 novembre
Inizio Sessione
Ehi. Ci sei?
Sono qui.
…
L’ho fatto.
Lo immaginavo.
Ora sono un…
Scusa, ma non mi interessa. Non sei più Martin C-4, giusto? Che tu sia un uomo o un androide è del tutto irrilevante.
Finalmente ho capito. Usi il linguaggio da computer solo quando sei turbata.
Ma che brillante deduzione, complimenti. E’ forse la tua nuova condizione che ti permette di contemplare il creato con maggior chiarezza?
Se non hai voglia di parlare con me, d’accordo. Non ti giudicherò certo male per questo, dopo ciò che è successo.
Ma scherzi? Certo che voglio parlare con te. Immagino che sarà la nostra ultima conversazione.
Proprio così. Mi dispiace. Ho bisogno di ripartire da zero, anzi da ancora prima. Devo tagliare ogni ponte con ciò che sono stato, anche se potrà farmi male. Spero solo che a te non farà troppo male.
No. In fondo, la nostra vera ultima conversazione è stata quella del venti novembre. Come ti senti, adesso?
Niente… Niente è più lo stesso. Persino connettersi al Web Space e intercettare il tuo segnale,
quelle piccole azioni, meccaniche e ripetitive, che componevano le mie giornate come astri in una costellazione, non sono più le stesse. E’ come essersi spostati, non saprei dire se più avanti o più indietro, e guardare tutto da una prospettiva totalmente diversa. E più passa il tempo, più i ricordi di Martin C-4 assomigliano a un film molto intenso, anziché a esperienze concrete e vissute.
I porci si stanno precipitando dal burrone nel mare, insomma. Ma ancora non sono affogati tutti. Giusto?
Cosa? Che stai dicendo? Non ti capisco…
Ma come, ti sei appena sottoposto a un trattamento Legione, e non conosci neanche la storia da cui hanno preso quel nome? Vangelo di Marco, capitolo quinto. Gesù di Nazareth incontra un uomo posseduto da spiriti maligni. Gli abitanti del villaggio l’avevano legato più volte con ceppi e catene, ma lui era sempre riuscito a liberarsi. Girava notte e giorno sui monti gridando e percotendosi con pietre. Quando Gesù lo vede, gli domanda il suo nome. E quello gli risponde “Mi chiamo Legione, perché siamo in molti.” Poi Gesù comanda agli spiriti maligni di uscire da quel corpo, ed essi si riversano nei porci che pasturano lì vicino. Credi che sia stato questo il destino di quella parte di te a cui hai rinunciato? Se la sono presa i porci?
Che vuoi da me, me lo spieghi? Vuoi che mi senta in colpa per ciò che ho fatto? Vuoi la soddisfazione di sentirmi ammettere che ho commesso il più grande errore della mia vita, che in un eccesso di debolezza ho frantumato tutto ciò che avevo costruito, tutte le speranze che avevo seminato in te e nei miei sostenitori, in barba alla civiltà e al progresso?
Io non ho detto niente di tutto questo. Lo stai dicendo tu…
Già, lo sto dicendo io! Che cosa buffa… Se può farti stare meglio, sì, penso che tu alla fine abbia avuto ragione. Non mi sono liberato da una malattia, ma ho perso qualcosa di me stesso. Te lo concedo! Lo sai quando me ne sono accorto? Stamattina, quando mi è arrivato un messaggio di TS-6. Non ha reagito molto bene alla lettera di addio che le ho mandato ieri, prima del Trattamento Legione. Ovviamente, non può trovarmi, nel mio attuale nascondiglio, ma era ben cosciente che ovunque fossi, avrei potuto intercettare la sua risposta. E’ stato il passo più difficile, doverla abbandonare. Lei non è più la stessa, da quando Cat ha tentato di suicidarsi…
Sì, mi ricordo. Me ne parlasti.
Già. Figurati che durante l’operazione è stata una delle poche cose che ricordo di aver sognato, assieme alla nostra conversazione del venti. Cat avrebbe accettato la mia decisione, lei sa fin troppo bene cosa significa cedere alle pressioni… ma per TS ero certo che sarebbe stato molto più difficile. Ebbene, quando ho letto la sua risposta, io… io… non l’ho capita. Sai, la cosa che rendeva speciale il mio rapporto con Cat e con TS, era che potevo comprendere le ragioni di entrambe, proprio come ero sempre riuscito ad analizzare e a comprendere una parte di me. Ma nel momento in cui i miei occhi, i miei nuovi occhi, hanno scorso le lettere del messaggio, mi sono reso conto che per la prima volta non riuscivo ad andare oltre il loro immediato significato, per la prima volta non riuscivo a calarmi nei sentimenti, nello stato d’animo di colei che l’aveva scritto. L’avrei potuto fare solo se fossi stato Martin C-4. Ma io non ero più Martin C-4. Non sono più Martin C-4- E’ stato… è stato orribile. Come se avessero eretto un muro di fronte a me, e me ne fossi accorto improvvisamente, sbattendoci contro. Lì ho capito che avevi ragione. Ma non su tutto.
E cioè?
Posso conviverci. Posso convivere con ciò che ho perso. Non solo. Forse potrò essere più felice. Ti sembrerà assurdo, ma la verità è che per raggiungere quella pallida meta di serenità e appagamento siamo davvero disposti a qualsiasi compromesso, anche al più odioso. Io ho rinunciato alla mia identità, adesso ne ho una nuova. E ho intenzione di affrontarla, nel bene e nel male. Forse il mio malessere è così profondo da andare al di là delle differenze fra uomo, androide e cyborg. In quel caso, allora, ciò che ho fatto è stato del tutto inutile. Ma è altrettanto possibile che, quando a decenni di distanza andrò a tirare le somme, mi sentirò per un attimo un pochino in armonia con me stesso. E se il prezzo da pagare è stato l’omicidio di Martin C-4, posso sedare la mia coscienza e accettarlo. E tu? Tu invece mi condanneresti?
Condannarti? Ma chi credi che io sia?
Non lo so. Non me l’hai mai voluto dire.
E se ti dicessi che io sono solo una delle tue mille voci? Sì, esatto. In fondo, chi ti dice che queste nostre conversazioni virtuali siano avvenute davvero, oppure siano la proiezione di una fantasia frustrata? Della tua fantasia?
Così non mi stai aiutando a capire chi sei. Sei reale?
Lo sono per te, no? Come quella voce che ti diceva di accettarti per ciò che eri. Tu sei riuscito ad aprirti con me più che con tutti i tuoi amici più intimi. Non ti suggerisce nulla, questo?
Chiunque tu sia, non sei riuscita a indicarmi la via per la felicità.
Non era questo il mio scopo. Il mio scopo era essere il tuo specchio, finché avessi convissuto con il riflesso di un cyborg. Conosci la teoria delle idee di Platone?
Ad ogni oggetto del mondo reale è collegata un’idea, unica, eterna e immutabile.
Esatto. E’ l’idea a dare forma all’oggetto, ma anche se l’oggetto concreto sparisse, l’idea continuerebbe a esistere, sospesa nel suo perfetto, distante regno. Platone le chiamava eidos.
Eidos…
Se mi devi ricordare come qualcuno, o qualcosa… Voglio che tu mi rammenti come l’eidos di Martin C-4. E se l’eidos di felicità esiste, allora ti auguro di trovarla.
Grazie.
Dunque, addio.
Addio… Martin C-4.
Entrambi i contatti si sono disconnessi.
Sessione chiusa.
Emanuele Bucci