Ma nella complessa rete delle connessioni ecologiche la perdita di biodiversità è sintomo e sinonimo del cattivo stato di salute degli ecosistemi e implica un peggioramento dei servizi eco-sistemici che sono alla base della nostra vita e del nostro benessere: la fornitura di cibo, materie prime e medicine, la regolazione del clima, la depurazione di acqua e aria, la rigenerazione del suolo, l’impollinazione delle piante, la protezione da inondazioni e malattie. Basti pensare che circa il 75% delle 100 principali colture a livello mondiale fa affidamento sugli impollinatori naturali, che oltre metà degli attuali composti medici di sintesi provengono da precursori naturali, e che gli ecosistemi terrestri riescono a immagazzinare ben 2.000 miliardi di tonnellate di carbonio, dando un contributo preziosissimo anche alla lotta al cambiamento climatico.
“Poiché il benessere e le economie delle società umane dipendono dai servizi degli ecosistemi, la perdita di tali servizi rappresenta una grave minaccia per lo sviluppo futuro di tutta l’umanità – ha dichiarato Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia – Per questo è necessario creare indicatori per i servizi eco sistemici in grado di quantificare i benefici che un ecosistema vitale offre all’umanità. È un primo passo essenziale per assegnare un valore economico ai servizi degli ecosistemi e favorire nuovi incentivi per la conservazione della natura, come sta proponendo il grande programma internazionale TEEB il cui rapporto finale verrà presentato durante la Conferenza di Nagoya.”
“Le specie sono le fondamenta degli ecosistemi – ha dichiarato Jonathan Baillie, direttore del Programma di Conservazione della Zoological Society di Londra – Ecosistemi in salute costituiscono la base di tutto quello che abbiamo. Se li perdiamo distruggeremo il sistema che supporta la nostra vita.”
Nonostante questo, l’impronta ecologica dell’uomo, ovvero la domanda di risorse naturali necessarie per le nostre attività, è in costante aumento e va ben oltre la capacità del pianeta di rigenerare le proprie risorse. Dal 1966 l’impronta ecologica globale è raddoppiata, l’impronta di carbonio è aumentata addirittura di 11 volte, rappresentando oggi oltre la metà dell’impronta ecologica globale, l’impronta idrica è in costante aumento e considerando l’acqua “virtuale” contenuta nei prodotti commercializzati internazionalmente, ha impatti e ricadute su fiumi e falde acquifere di tutto il mondo (un abitante del Regno Unito, per esempio, consuma 150 litri di acqua al giorno, ma il consumo nel Paese di prodotti esteri porta questo valore fino a 4.645 litri di risorse idriche mondiali al giorno).
Considerando le aree necessarie a fornire le risorse che utilizziamo, la superficie occupata dalle infrastrutture e quella necessaria ad assorbire i rifiuti che produciamo, comprese le emissioni di CO2, basterebbe che ogni abitante del pianeta si “accontentasse” di 1,8 ettari globali per vivere entro i limiti della capacità del pianeta senza compromettere le generazioni future. E invece la stragrande maggioranza dei Paesi, in particolare le nazioni più ricche, superano di gran lunga questa misura arrivando a picchi di oltre 10 ettari globali pro capite. I 10 Paesi con l’impronta ecologica pro-capite più “pesante” sono Emirati Arabi Uniti, Qatar, Danimarca, Belgio, Stati Uniti, Estonia, Canada, Australia, Kuwait e Irlanda. In sostanza, ci vorrebbero ben 6 pianeti se tutti vivessimo come un abitante medio degli Emirati Arabi, 4,5 pianeti per Stati Uniti, Belgio e Danimarca, 4 pianeti per Canada e Australia. Ma anche l’Italia non brilla per “leggerezza”: a ciascun italiano servono infatti ben 5 ettari globali per soddisfare il suo stile di vita, un valore equivalente alla capacità produttiva di 2,8 pianeti, che ci porta al 29° posto della classifica, subito dopo Germania, Svizzera e Francia, ma molto prima dei più virtuosi Regno Unito, Giappone e Cina.
Complessivamente, i 31 Paesi dell’OCSE, che includono le economie più ricche del mondo, sono responsabili di circa il 40% dell’impronta globale. L’unico tra i Paesi europei a rientrare nei limiti del pianeta è la Repubblica Moldava, mentre a chiudere la classifica con impronte da “cenerentola” sono Bangladesh, Afghanistan e Timor-Est.
Per la prima volta il Living Planet Report 2010 ha incrociato i trend delle specie e dell’impronta ecologica con i redditi dei singoli Paesi, mostrando come i Paesi a più alto reddito hanno un’impronta ecologica pari a circa 5 volte quella dei Paesi a basso reddito, che subiscono invece la maggiore perdita di biodiversità. Questo indica chiaramente che i consumi insostenibili dei Paesi più ricchi dipendono largamente dallo sfruttamento delle risorse dei Paesi più poveri, compresi quelli tropicali.
Eppure una maggiore impronta ecologica e un alto livello di consumi non corrispondono necessariamente a un più alto livello di sviluppo. Il Perù, per esempio, ha un’impronta ecologica pro-capite di 1,5 ettari globali, in linea quindi con la capacità del pianeta, e un Indice di sviluppo umano di 0,86 che rientra nei parametri di aspettativa di vita, reddito e livello di educazione stabiliti dall’ONU. L’Indice dello Sviluppo umano può quindi essere alto anche in Paesi con un’impronta ecologica moderata.
“I Paesi che mantengono alti livelli di dipendenza dalle risorse naturali stanno mettendo in pericolo le loro stesse economie – ha affermato Mathis Wackernagel, presidente del Global Footprint Network – I Paesi che riescono a garantire la migliore qualità di vita con la minore pressione sulla natura non solo aiuteranno gli interessi globali, ma saranno leader in un mondo dalle risorse sempre più ristrette.”
Considerando che nel 2050 la popolazione globale supererà con ogni probabilità i 9 miliardi, rientrare nei limiti del pianeta e investire nel capitale naturale è una scelta quanto mai urgente. Come fare? Il WWF ha elaborato un decalogo per il futuro sostenibile e la green-economy in cui ognuno ha un suo ruolo, a partire dall’elaborazione di nuovi indicatori di sviluppo all’aumento delle aree protette e della capacità produttiva del pianeta, dagli accordi internazionali per la distribuzione equa delle risorse, fino alle scelte individuali nella dieta e nei consumi di energia (per calcolare la propria impronta di carbonio e fare una spesa “a prova di CO2” il WWF ha elaborato due applicazioni interattive su www.improntawwf.it e su www.wwf.it/imprese i progetti del WWF con le imprese verso un futuro sostenibile).
“La sfida posta dal Living Planet report è chiara – conclude Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia – Dobbiamo trovare un modo per soddisfare le esigenze di una popolazione sempre più numerosa che incrementa i propri consumi. Dobbiamo imparare a vivere nei limiti delle risorse dell’unico pianeta che abbiamo e per fare questo chi ha uno stile di vita consumista deve limitare consumi e sprechi”.”
Roma 13 ottobre 2010 - Ufficio Stampa WWF Italia – 06 84497377 - 06 84497377
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