Ambiente

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Un lavoro di un team internazionale guidato dalla Sapienza, e diffuso sulla rivista Environmental Science & Technology, ha dimostrato che il digestato, il residuo organico risultante dalla produzione di biogas, può essere trasformato in un autentico stimolatore immunitario naturale per le piante, a patto che venga adeguatamente trattato.

Questa scoperta, tutelata anche da un brevetto internazionale, schiude nuove possibilità per diminuire l'impiego di pesticidi e fertilizzanti chimici, favorendo così una gestione agricola più sostenibile e circolare. Il digestato, già apprezzato come concime naturale grazie al suo apporto nutritivo, presenta tuttavia due aspetti problematici: uno squilibrio nella sua composizione nutrizionale e la presenza di un'abbondante componente microbica che può limitarne l'efficacia agronomica.



Roma, città celebre per il suo verde secolare e il maestoso skyline disegnato dai Pini e dai Cipressi, sta vivendo una vera e propria "strage silenziosa" del suo patrimonio arboreo. Negli ultimi anni, tra necessità di sicurezza e polemiche sulla trasparenza, la Capitale ha visto l'abbattimento di migliaia di alberi (stime indicano oltre 13.000 esemplari dal 2021 al 2025), un numero che aumenta se si considerano gli alberi classificati come "morti in piedi" o a rischio schianto.
Il culmine di questa ondata di tagli ha colpito persino i simboli vegetali della città:

 

Il silenzio fotosintetico: quanto costa all'aria e alla salute?
L'abbattimento di alberi maturi comporta un grave danno ambientale netto per la qualità dell'aria, che si riflette direttamente sulla salute pubblica, con le malattie respiratorie in costante aumento nei centri urbani.
Produzione di ossigeno e filtro inquinanti. Un singolo albero adulto può produrre ossigeno sufficiente a coprire il fabbisogno annuale di 10 persone. Soprattutto, la capacità di un albero di filtrare inquinanti come le polveri sottili (PM10) è direttamente proporzionale alla sua massa fogliare. Le piante adulte assorbono una quantità di CO2 superiore, arrivando perfino al 31% in più rispetto alle giovani.


Una ricerca, coordinata da scienziati dell'Università Sapienza di Roma, mette in luce gli effetti dei mutamenti climatici sui mammiferi che popolano i deserti. Lo studio rivela che, già nei prossimi decenni, il riscaldamento globale potrebbe colpire persino le specie più specializzate nel sopravvivere in contesti di estrema siccità e caldo record.

Sebbene la parola "deserto" suggerisca un'area desolata o spopolata, gli habitat desertici custodiscono una frazione rilevante della biodiversità, seppur poco varia, ma eccezionalmente singolare. Esempi di questa fauna unica, che caratterizza i deserti terrestri, includono animali noti come la volpe del deserto, simboli della conservazione come l'orice (un'antilope dell'Africa e del Medio Oriente), e vari piccoli roditori.

 

Quanto tempo resisteranno i ghiacciai all'aumento delle temperature globali? Non a lungo, secondo un nuovo e allarmante modello.

Un gruppo di ricerca internazionale, guidato dall'austriaco ISTA (Institute of Science and Technology Austria) e con la collaborazione degli italiani Cnr-Isp e Cnr-Irsa, ha sviluppato un modello previsionale per stimare la capacità di "auto-raffreddamento" dei ghiacciai. Questa cruciale funzione mitiga localmente gli effetti del cambiamento climatico, ma è destinata a esaurirsi, accelerando drammaticamente la loro fusione. I risultati dello studio, basati su dati raccolti in 350 stazioni meteo in tutto il mondo, sono stati pubblicati sulla rivista Nature Climate Change.

Un team di ricerca del Dipartimento di Scienze della Terra della Sapienza Università di Roma, guidato dal dottorando Eduardo Di Marcantonio e dai professori Luigi Dallai e Massimo Marchesi, ha messo a punto il primo metodo analitico per l'analisi isotopica dei principali PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) presenti nell'ambiente.

I PFAS, noti come "inquinanti eterni" a causa della loro persistenza e del potenziale accumulo negli organismi viventi con effetti cancerogeni, sono composti chimici usati in una vasta gamma di prodotti (antiaderenti, tessuti impermeabili, cosmetici, ecc.).

 

Il piombo non è solo un problema delle aree industrializzate. Un recente studio condotto dall'UAB e dalla UB in una regione incontaminata dell'Amazzonia peruviana dimostra che questa tossina persistente rappresenta una crisi sanitaria inaspettata per le popolazioni indigene.

I risultati sono sbalorditivi: i livelli medi di piombo nel sangue superano di oltre il doppio la soglia di rischio (11.74μg/dL), con una percentuale che sfiora il 95% di adulti e bambini con esposizione pericolosa. Il piombo è noto per i suoi effetti deleteri su organi vitali e, in particolare, sul neurosviluppo infantile.

Un legame complesso e controintuitivo

L'inquinamento atmosferico è universalmente riconosciuto come una minaccia per la salute umana e per gli ecosistemi. Le particelle sottili (PM2.5), prodotte dalla combustione di combustibili fossili, dagli incendi o sollevate dalle tempeste di sabbia, sono note per i loro effetti dannosi. Tuttavia, una nuova ricerca sta svelando un lato inaspettato e profondamente controintuitivo di questo fenomeno: in determinate condizioni, queste stesse particelle possono avere un effetto benefico sui raccolti agricoli, agendo come catalizzatori per la pioggia e aumentando la resilienza delle colture allo stress idrico. Uno studio condotto da un team internazionale di scienziati del clima e agronomi sta riscrivendo la nostra comprensione dei complessi legami tra atmosfera, inquinamento e agricoltura.


Dal 3 al 5 ottobre torna l'Urban Nature, il festival nazionale del WWF Italia giunto alla nona edizione, con oltre 100 appuntamenti distribuiti in tutte le regioni. L'iniziativa mira a valorizzare la biodiversità urbana come strumento chiave per rendere le città più vivibili, sicure e resilienti agli effetti della crisi climatica.

In concomitanza con il festival, il WWF pubblica il nuovo report "Adattamento alla crisi climatica in ambito urbano: ripensare le città come sistemi viventi di natura e persone", che invita a trasformare l'adattamento in un'occasione per ristabilire la relazione tra natura, persone e sistemi urbani.


Il vasto Parco Nazionale Etosha, in Namibia, un gioiello di biodiversità e uno dei più grandi parchi faunistici dell'Africa, è stato di recente devastato da un gigantesco incendio. L'evento ha consumato circa un quinto della sua superficie, un'area che si estende per oltre 4.000 chilometri quadrati.

Questo disastro ecologico serve da doloroso promemoria di come un atto di disattenzione o di pura stupidità umana possa avere conseguenze catastrofiche. Le indagini sulle cause dell'incendio sono ancora in corso, ma si ritiene che l'origine sia da ricondurre a qualche forma di attività umana, come la produzione di carbone in una fattoria vicina al parco. La tragedia di Etosha sottolinea la fragile relazione tra le aree protette e le comunità umane che le circondano.

Etosha, che in lingua Oshindonga significa "grande luogo bianco" a causa della sua immensa salina, ospita una straordinaria varietà di specie animali. È uno dei pochi luoghi al mondo dove si può ammirare il raro rinoceronte nero, oltre a una delle più grandi popolazioni di leoni, branchi di elefanti e giraffe. L'incendio non solo ha distrutto l'habitat di queste specie, ma ha anche messo a rischio la loro stessa sopravvivenza, costringendole a fuggire in cerca di rifugio e cibo. Purtroppo, la fuga degli animali dalle aree protette li espone anche al rischio di bracconaggio, un problema ancora molto presente in Africa.

 

I biologi coinvolti nel progetto LIFE ADAPTS hanno lanciato un messaggio di vitale importanza in vista della Notte Europea dei Ricercatori: la scienza che protegge le creature marine è fondamentale per la sopravvivenza delle nostre comunità costiere di fronte alla crisi climatica.

Alla Ricerca di Strategie di Sopravvivenza
Il progetto LIFE ADAPTS (Climate change ADAptations to Protect Turtles and monk Seals), co-finanziato dall'Unione Europea, si concentra sull'identificazione di percorsi di adattamento al cambiamento climatico in aree cruciali per la riproduzione e la vita di tre specie iconiche del Mediterraneo: la tartaruga comune (Caretta caretta), la tartaruga verde (Chelonia mydas) e la foca monaca (Monachus monachus), in Italia, Grecia e Cipro.

 

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