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Ecco le lezioni che dobbiamo imparare dalla pandemia Covid-19: “Un nuovo patto tra l’uomo e la natura”

“L’epidemia da Coronavirus non si sarebbe mai diffusa se 17 anni fa, dopo la SARS, i cinesi avessero chiuso i mercati di animali selvatici vivi. Le soluzioni migliori sono quelle sociali”. Parola di Jared Diamond, biologo, antropologo, geografo, linguista e ornitologo americano, membro dell’Accademia delle Scienze USA e vincitore del Premio Pulitzer con “Armi acciaio e malattie”, che il WWF ha intervistato nei giorni scorsi. “I progressi della scienza e della tecnologia da soli non bastano per fermare le epidemie. Ci vorrà forse un anno per il vaccino, il problema è sociale e la soluzione sarà sociale”.

Il WWF ha chiesto a Diamond - che parla 13 lingue tra cui l’Italiano e che nel suo ultimo viaggio in Italia ha visitato le Oasi del WWF - quali sono gli errori che abbiamo fatto e non dovremo ripetere nel dopo pandemia. “Il primo errore è stato quello di non bloccare subito gli incontri tra le persone. Trump ha pensato all'inizio che l'epidemia non fosse così grave, e noi americani non abbiamo da subito attuato un distanziamento fisico. Il secondo errore è continuare a mettere in atto comportamenti che favoriscono la diffusione delle malattie trasmesse dagli animali selvatici all’uomo. Sono stati i mercati aperti in Cina a spianare la strada al virus Covid-19. Questi poi sono stati chiusi, ma resta ancora aperta la strada di trasmissione rappresentata dal commercio di animali per la medicina tradizionale. Se questo traffico rimarrà aperto continuerà la diffusione di malattie dagli animali all’uomo”.

 

Uno studio dell’Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac), pubblicato su Atmosphere, analizza la possibile correlazione tra l’inquinamento dell’aria e la diffusione e la mortalità del Covid-19, evidenziando le conoscenze scientifiche attuali, possibili conclusioni e ambiti di approfondimento

La diffusione in tutto il mondo del Covid-19 sembra chiaramente presentare, nei diversi focolai, notevoli differenze in termini di tassi epidemici e di mortalità. Queste differenze sollevano importanti questioni relative all'influenza dei fattori atmosferici, naturali come la temperatura e l’umidità o antropici come l’inquinamento, sulla così elevata trasmissibilità e differenza di mortalità della malattia. La complessità dell'argomento lo rende lungi dall'essere risolto, molti aspetti della questione richiedono ulteriori approfondimenti con approcci multidisciplinari e competenze diverse. Queste domande sono insomma “open challenges” per le attuali attività di ricerca.

Un lavoro pubblicato sulla rivista scientifica Atmosphere dall’Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima
del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac) di Lecce e Roma sull’interazione tra inquinamento dell’aria e Covid -19 analizza le attuali conoscenze scientifiche al riguardo, mettendo in evidenza i dati noti, le conclusioni che se ne possono trarre e gli aspetti che necessitano di ulteriori studi per una migliore comprensione.

 

 


Si chiama GREENCUBE , il progetto coordinato dal Dipartimento di Ingegneria astronautica, elettrica ed energetica, in collaborazione con l'Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA), che si propone di sviluppare tecnologie per la colonizzazione umana della Luna. Il team della Sapienza svolgerà uno studio sperimentale sulla coltivazione di microverdure, associato alla simulazione virtuale delle attività che verranno svolte in orbita dagli astronauti
Un micro-orto a 6mila km dalla Terra per coltivare verdure fresche destinate alle future esplorazioni spaziali. Si chiama GREENCUBE è progettato da un team scientifico tutto italiano e sarà contenuto per la prima volta a bordo di un mini satellite che verrà lanciato in occasione del volo inaugurale del vettore ufficiale VEGA-C dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA).

Il prototipo alla cui realizzazione partecipano ENEA, Sapienza Università di Roma – coordinatore e titolare di un accordo con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) - e l'Università Federico II di Napoli, misura 30 x 10 x 10 cm e si basa su colture idroponiche a ciclo chiuso in grado di garantire per i 20 giorni di sperimentazione un ciclo completo di crescita di microverdure, selezionate tra quelle più adatte a sopportare le condizioni estreme extraterrestri.

 


Al via un progetto di ricerca dell'Università di Pisa in collaborazione con il Comune di Capannori e la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca . I mozziconi delle sigarette potrebbero presto essere riutilizzati e servire come substrato inerte per la crescita di piante ornamentali attraverso tecniche di coltura idroponica. È questo l'obiettivo di un progetto di ricerca coordinato dal professor Lorenzo Guglielminetti, del Centro di ricerche agro-ambientali "Enrico Avanzi" dell'Università di Pisa, in collaborazione con il Comune di Capannori e con il finanziamento della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca.


Il progetto prevede innanzitutto di selezionare le migliori tecniche di preparazione del materiale inerte. I residui di sigaretta dovranno essere prima separati dalle componenti biodegradabili - carta e tabacco - e poi opportunamente trattati per risultare chimicamente e fisicamente adatti all’uso. Ottenuto il substrato inerte più adatto, saranno condotte prove di germinazione di diverse specie vegetali al fine di individuare quelle che meglio si adattano al sistema. Con queste ultime saranno poi condotte prove di crescita fino al completamento del ciclo vitale e produttivo. Le acque e i residui di pulizia dei mozziconi saranno parallelamente utilizzate in sistemi chiusi di allevamento di alghe monocellulari al fine di ottenere acque decontaminate e biomasse algali utilizzabili come biocombustibile.
I risultati attesi potranno andare in molteplici direzioni.

Favorendo la raccolta differenziata dei residui di sigaretta, si raggiungerà il risultato fondamentale di ridurre la quantità di rifiuti abbandonati, mentre con il loro trattamento si riuscirà a produrre materiale vegetale utilizzabile all'interno della stessa comunità. Infine, tramite l'uso di alghe, si riuscirà a decontaminare le acque di lavaggio dei filtri con contestuale produzione di biomassa valorizzabile per produzione di energia.

Un nuovo contributo pubblicato sulla rivista PNAS, con il coordinamento del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, mette in relazione il fenomeno della diffusione delle malattie infettive con l'azione dell'uomo sulla natura.


L'attuale epidemia di Covid-19, originata nella provincia cinese di Hubei e causata da un coronavirus simile a quello della Sars, sta tenendo ancora una volta il mondo sotto scacco. Questa non è che l'ultima di una serie di pandemie che hanno terrorizzato paesi di ogni parte del mondo negli ultimi anni: Ebola, Sars, Zika, MERS, H1N1, solo per citarne alcune. Tutte queste pandemie hanno una cosa in comune: sono di origine zoonotica, sono trasmesse cioè dagli animali, soprattutto selvatici. Ma è possibile prevenire questi fenomeni?

I recenti focolai di malattie infettive, come il Covid-19, sono stati associati alle alte densità di popolazione umana, ai livelli insostenibili di caccia e di traffico di animali selvatici, alla perdita di habitat naturali (soprattutto foreste) che aumenta il rischio di contatto tra uomo e animali selvatici e all’intensificazione degli allevamenti di bestiame (specie in aree ricche di biodiversità).

Un recente contributo, pubblicato sulla rivista PNAS, con il coordinamento di Moreno Di Marco del Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza, discute il rischio di insorgenza di pandemie nell'ottica dei cambiamenti ambientali causati dall'uomo. Lo studio evidenzia che il rischio di insorgenza di pandemie non dipende di per sé dalla presenza di aree naturali o di animali selvatici, ma piuttosto dal modo in cui le attività antropiche influiscono su queste aree e queste specie.


Per la prima volta uno studio realizzato dalla Sapienza in collaborazione con la Stanford University, la Virginia Tech University e diversi istituti di ricerca italiani di settore ha stimato la presenza e la distribuzione del predatore nel nostro bacino. I risultati, che evidenziano il drastico calo della specie negli ultimi anni, sono stati pubblicati sulla rivista Fish and Fisheries
Non tutti sanno che lo squalo bianco popola da secoli il Mediterraneo: protagonista di numerosi racconti e celebri pellicole, il re degli squali nuota nei nostri mari e le testimonianze storiche dei suoi avvistamenti risalgono addirittura al Medioevo.

Al vertice della catena alimentare marina, lo squalo bianco è una presenza indispensabile per la vita stessa dei mari; tuttavia, gli esemplari che abitano il “Mare Nostrum” appartengono a una delle popolazioni meno conosciute e più minacciate al mondo, soprattutto a causa delle innumerevoli e spesso deleterie attività umane. Il drastico ridimensionamento subito negli ultimi anni ha spinto la International Union for the Conservation of Nature (IUCN) a inserirlo tra le “specie in pericolo critico” nel Mediterraneo.



Alla vigilia del World Economic Forum di Davos, l’incontro annuale a cui le aziende accorreranno per presentare le loro agende per un mondo più sostenibile, il WWF presenta le Palm Oil Buyers Scorecard ossia le valutazioni delle aziende per il loro supporto all’impiego di olio di palma sostenibile, con lo scopo di affrontare e risolvere la problematica della deforestazione nelle aree tropicali. E i risultati non sono dei migliori.

Nessuna azienda infatti ha raggiunto il voto più alto nel punteggio stabilito dal WWF, che ha esaminato le strategie messe in atto dai brand globali nella riduzione degli impatti sugli habitat tropicali generati da un approvvigionamento non sostenibile dell’olio vegetale più consumato al mondo.


Le ascidie sono una classe piena di sorprese da scoprire. Espellono le loro interiora per difendersi dai predatori, ma la cosa più interessante è il loro potere rigenerativo. Ecco una breve immersione nel mondo di questi magnifici organismi marini. Le ascidie appartengono al phylum dei cordati. Un gruppo tassonomico che si caratterizza per la presenza di una struttura di sostegno, nota come notocorda dalla quale evolutivamente deriva la nostra colonna vertebrale.   morfologia degli stadi larvali delle ascidie evidenzia la presenza della notocorda nella coda, che poi però nello stadio adulto viene riassorbita insieme al tubo neurale. Durante l’epoca giovanile le larve nuotano libere nel mare fino a quando trovano un luogo adatto per stabilirsi in modo definitivo. Una volta ferme, le ascidie ingeriscono il loro ‘cervello’ e il tratto di sostegno caudale, entrambi non più necessari per lo stile di vita sessile sul fondale roccioso che hanno scelto per trascorrere il resto del loro ciclo biologico. La scoperta della caratteristica struttura dei cordati all’interno di questa classe risale al 1846, quando Thomas Henry Huxley si imbarcò sulle navi della marina inglese come assistente chirurgo così da poter ripagare i debiti contratti da suo padre.



Dal 2004 al 2015 ha subito una riduzione di volume del 30% e di area del 22%: nell’arco dei prossimi decenni potrebbe addirittura scomparire del tutto. A delineare questo scenario, attraverso due modelli 3D, ricercatori del Cnr-Ismar e delle Università di Trieste, Genova e Aberystwith (Galles) e di ARPA Veneto. Lo studio è stato pubblicato su Remote Sensing of the Environment

In soli 10 anni il ghiacciaio della Marmolada, montagna iconica delle Dolomiti, ha ridotto il suo volume del 30%, mentre la diminuzione areale è stata del 22%. A rivelarlo, uno studio condotto da un team di ricercatori dell’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ismar), delle Università di Genova e Trieste, dell’Università gallese di Aberystwyth e dall’ARPA Veneto, che ha messo a confronto due rilievi geofisici sul ghiacciaio effettuati nel 2004 e nel 2015. Il lavoro “Recent evolution of Marmolada glacier (Dolomites, Italy) by means of ground and airborne GPR surveys” è pubblicato su Remote Sensing of the Environment.

Arriva un nuovo terribile aggiornamento dalla situazione incendi in Australia.


Secondo le ultime stime del WWF Australia, infatti, oltre un miliardo di animali potrebbero essere stati uccisi direttamente o indirettamente dagli incendi che hanno bruciato 8,4 milioni di ettari in tutta l'Australia, una superficie equivalente all'intera Austria. Un bilancio che può essere descritto con una sola parola: apocalisse.

Queste cifre sono state calcolate utilizzando una metodologia che stima l'impatto del disboscamento sulla fauna australiana ed estrapolate dagli studi del Prof. Chris Dickman dell'Università di Sydney. Si tratta di una perdita straziante, che comprende migliaia di preziosi koala della costa centro-nord del New South Wales, insieme ad altre specie iconiche come canguri, wallaby, petauri, cacatua, potoroo e uccelli melifagi.

“Il WWF-Australia è molto addolorato per la perdita di vite umane nella tragedia degli incendi che sta attanagliando il Paese- ha dichiarato il CEO del WWF Australia, Dermot O'Gorman-. Il nostro affetto e sostegno va alle famiglie che hanno perso i loro cari e alle comunità che hanno perso la casa e i loro averi”.

 

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