Freddo. Glaciale, penetrante. Odore di umidità e legno marcito. Tenebre oscure, come eterni e insondabili disegni. Fuori, la pioggia. Non faceva altro che piovere, da un po’ di giorni a quella parte. C’è chi avrebbe trovato una simile evenienza tetra, o squallida, o sfortunata. Ma a Antonio Silvera, meglio noto come Empath, la pioggia era sempre piaciuta. Vedere la perfezione azzurra del cielo intaccata dall’addensarsi progressivo delle nubi, fino a quel lungo, straziante pianto di orgoglio sconfitto, lo faceva sentire bene. Come un meraviglioso errore commesso dalla volta celeste. Circondato da assi molli e travi pericolanti, Empath ora sedeva sul pavimento polveroso di quello che un tempo era stato il piano di sopra di una splendida, ricca casa di un’altrettanto prestigiosa famiglia, e che ora si riduceva a una baracca diroccata e fatiscente, in attesa disperata dell’eutanasia di una demolizione. Al centro, un enorme crollo di qualche anno prima permetteva una buona visuale del piano sottostante. Buona, per chi fosse pratico dell’appartamento e abituato a quell’oscurità.