La storia parte, inutile a dirlo, da lontano. Il 12 maggio 1905 il magnate americano Andrew Carnegie donava al British Museum un calco di un dinosauro gigantesco (lungo 26 metri e alto quasi cinque all'altezza del bacino) assemblato con repliche perfette delle ossa rinvenute nel 1899 nelle pianure del Wyoming, non distante dalla linea ferroviaria della Union Pacific. Ancora una volta, scienza, tecnologia e potere economico si erano incontrate per aggiungere un tassello nella storia delle grandi scoperte, come era avvenuto con John "Strata" Smith, agli inizi dell'800, il quale pubblicò la "Storia geologica dell'Inghilterra" dopo aver scandagliato il terreno per costruire canali e potenziare così il mercato colonialista inglese; poco prima, il barone Georges Cuvier aveva rinvenuto un mondo sommerso che giaceva sotto "le Lumière" per antonomasia, la città e il Bacino di Parigi.
Gli anni sul finire dell'800 videro alcuni scienziati americani contendersi migliaia di reperti rinvenuti nell'Ovest (un "far West" sui generis...) finché Carnegie, per porre fine a questa "guerra delle ossa" decise di organizzare e finanziare una apposita spedizione sul luogo della contesa: ancora oggi lo scheletro originale è il cuore del Carnegie Museum di Pittsbourgh. Il 26 settembre 1909 Carnegie decise di donarne una copia al Regno d'Italia, in particolare al Museo dell'Università di Bologna.
Agli inizi del secolo scorso tale Museo già possedeva i requisiti essenziali per poter ospitare un simile e ingombrante "divo" della paleontologia: la capacità di spazio, innanzi tutto, i numerosi reperti ed una indiscussa fama accademica, in quanto nel 1881 Giovanni Capellini vi aveva già organizzato il 2° Congresso geologico internazionale . Nel nuovo allestimento della sala (corredata di grande specchio così da poter restituire l'enorme vertebrato in tutta la sua maestosità agli occhi del visitatore) il "Diplodocus" ha cambiato oggi postura (ha "alzato la coda", come è scritto in uno dei cartelli esposti nella sala) poiché la lunga coda è stata sollevata dal basamento e si trova ad oltre cinque metri di altezza, mentre il collo è stato assemblato in una postura anatomicamente più corretta. Accanto al Diplodocus, il visitatore incontrerà il suo nemico giurato, il carnivoro "Torvosaur tanneri" (il Museo ne ha acquisito il calco del cranio) esemplare giurassico la cui lunghezza complessiva si aggira sui 12 metri.
La collaborazione con il centro DIAPReM dell'Università di Ferrara ha inoltre permesso la resa digitale dei più importanti reperti custoditi al Museo e nel futuro è prevista la messa on line di alcuni modelli morfometrici per gli studiosi: nel frattempo, una sala al piano terra è dedicata alla produzione dei cosiddetti "paleo-artisti" ovvero illustrazioni di dinosauri eseguite da disegnatori contemporanei, che in molti casi possono definirsi opere d'arte tout court. Un laboratorio didattico per le scuole completa i servizi attuali del museo.
Una festa di centenario in una sala gremita di persone e soprattutto di giovani e bambini incuriositi, affascinati dalle ombre del dinosauro, una celebrazione che si chiuderà con l’International Conference on Vertebrate Palaeobiogeography dal 27 al 30 settembre 2009, nella stessa sede bolognese (www.museocapellini.org) che vanta peraltro la nascita della parola "geologia" ad opera del naturalista Ulisse Aldrovandi (1522 - 1605) il quale per primo creò un museo scientifico pubblico.
Tra gli esemplari custoditi nelle sale dei due piani del Museo troviamo i fossili provenienti dalla zona di Bolca (VR) scheletri cartilaginei e taluni pigmenti cutanei rarissimi; elefanti e balene...della Val Padana, testimonianze di vita della lunga e sofferta formazione del suolo nazionale (l'Italia ha continuamente cambiato aspetto morfologico); un gigantesco formichiere (Scelidotherium capellini) esemplare unico al mondo, ippopotami, ammoniti. Una menzione particolare va ai reperti provenienti dal Nord America, non solo per la particolarità dei fossili conservati, ma per i racconti pubblicati dall'esploratore-geologo-paleontologo Giovanni Capellini: indimenticabili le pagine (esposte nelle vetrine) in cui si racconta l'incontro con un Capo dei Sioux o una nottata passata in un "saloon" con tanto di musica dal vivo (G.Capellini, "Relazione di un viaggio scientifico nell'America Settentrionale", Bologna, 1863)
Per il colmo dell'ironia della storia, come ha dichiarato Gian Battista Vai durante il discorso inaugurale della mostra, nel 1909 Filippo Tommaso Marinetti lanciava (da Bologna, successivamente pubblicato a Parigi) il Manifesto del Futurismo in cui si leggeva programmaticamente "Nous voulons démolir les musées" ma nello stesso anno Carnegie donava al Museo di Bologna una prestigiosa copia di un esemplare che simboleggia la ricerca e la conservazione di un passato di centinaia di milioni di anni.
Nella prefazione del "Catalogo fotografico della mostra", il curatore Federico Fanti (giovane collaboratore del Museo specializzatosi in Canada proprio sullo studio dei dinosauri) scrive, a proposito del fascino che può esprimere un reperto fossile: "quando si studiano i fossili e le rocce che li preservano spesso è come avere in mano questo prodigioso strumento per navigare nel tempo. Rappresentano infatti una serie di piccoli oblò sul passato, su tempi in cui l'uomo non era che un progetto che la Natura teneva nella lista delle cose da fare, un giorno lontano (...) ...mentre le nostre conoscenze si estendono, il numero degli oblò aumenta, diventa più facile osservare quello che ci sta davanti e vederlo in modo nitido. E finalmente cominciamo a capire, a vedere le cose, nel loro luogo e nel loro tempo".
La "mission" di un museo, ma non solo: lo scopo di chiunque voglia preservare, per se stesso e per chi vuole sapere, uno spazio illimitato di conoscenza.
Luisa Sisti