Alla prima domanda è possibile rispondere facendo propria una definizione di Terracini, che descrive l’epidemiologia ambientale come lo studio, con i metodi tradizionali dell’epidemiologia eziologica, del verificarsi delle malattie nelle popolazioni in relazione ad esposizioni a particolari agenti presenti nell’ambiente. In questa definizione sono infatti individuabili entrambe le dimensioni, quella della sanità pubblica e quella dell’etica. La prima si riconduce al fatto che sono proprio le misure di sanità pubblica (rimozione o riduzione di agenti inquinanti in grado di agire come fattori di rischio) a conferire concretezza e utilità pratica alla identificazione del rapporto causale tra particolari fattori ambientali e specifiche malattie consentita dagli studi epidemiologico-ambientali.
La seconda è correlabile alla dimensione collettiva delle ricadute sulla salute che gli studi epidemiologici permettono ed alla complessità dei problemi che tale dimensione usualmente determina.
Seguendo la traccia che ci viene proposta da Pietro Comba, ne possiamo individuare almeno tre: il primo è di carattere deontologico, e si identifica con l’analisi dei doveri del ricercatore nei riguardi dei soggetti coinvolti nello studio nonché con la posizione del ricercatore rispetto ai conflitti di interesse che la divulgazione dei dati possono scatenare. Esistono, inoltre, per chi lavora in campo epidemiologico, problemi deontologici relativi ai delicati aspetti della trasparenza sui finanziamenti ricevuti. Afferisce sempre alla valutazione etica, seppure attraverso il particolare angolo di visuale rappresentato dall’ epistemologia, l’esame dei problemi connessi con la produzione delle conoscenze, in particolare nella valutazione dei valori impliciti che guidano lo studio dei ricercatori. Esiste, infine, l’aspetto più strettamente morale, che coinvolge l’epidemiologo attraverso l’interrogativo su “cosa è bene e cosa è male” in rapporto alle scelte di sanità pubblica e alla normazione che lo studio contribuisce a determinare.
Cercheremo quindi di approfondire tutti questi aspetti, ricorrendo il meno possibile a quell’arsenale terminologico di derivazione filosofica che troppo spesso è appannaggio della bioetica e dei suoi dibattiti, e che contribuisce non poco a ostacolarne la diffusione tra gli operatori scientifici.
Il primo problema etico, di natura deontologica, che si presenta all’epidemiologo, come a qualsiasi scienziato che compia studi su popolazioni umane è, come abbiamo visto, costituito dalla necessità di tutelare i diritti dei soggetti coinvolti nello studio. Non si tratta, in questo caso, di prevenire effetti dannosi direttamente correlabili all’atto sperimentale, come accade, ad esempio, nella sperimentazione dei farmaci. Si tratta piuttosto di ridurre al minimo - se possibile, annullare - gli aspetti psicologici negativi legati alla violazione della sfera privata di chi viene sottoposto a uno studio. Il conflitto, in questo caso, è tra il diritto alla privacy, recentemente rafforzato, anche nel nostro paese, da un’apposita legislazione, ed il beneficio, per il singolo e per la comunità, che deriva dall’individuazione di un fattore di rischio prima sconosciuto o sottovalutato. Su questo punto la riflessione è molto avanzata anche per la naturale afferenza che tali tipi di problemi hanno nei confronti del consenso informato, tematica già ampiamente dibattuta. A fronte di questi problemi, esistono, d’altronde, esigenze metodologiche che impongono di intervistare tutti i soggetti inseriti in un protocollo di studio epidemiologico. La naturale istanza utilitaristica insita nella sanità pubblica (gli utilitaristi sostengono, come è noto, che bisogna estendere il maggior beneficio possibile al massimo numero possibile di persone) produce negli operatori una spontanea tendenza ad assecondare la seconda esigenza, con il ricorso, peraltro, al massimo grado di prudenza e di persuasione.
Un tipico conflitto d’interesse dei nostri tempi oppone le esigenze occupazionali a quelle della salute pubblica. Alcuni studi, ad esempio, possono creare grosse difficoltà ad insediamenti industriali dei quali venga evidenziato il carico inquinante (e oggi, accanto alle tradizionali fonti d’inquinamento chimico e microbico, crescono le evidenze di un possibile danno da radiazioni elettromagnetiche che sarà verosimilmente alla base di non pochi problemi nello sviluppo delle reti di telecomunicazione). Si tratta di situazioni in cui non sempre sono realizzabili interventi di correzione che scongiurino il rischio della chiusura degli impianti, e che comunque comportano spesso rilevanti perdite economiche per l’azienda coinvolta e mettono in pericolo non pochi posti di lavoro. Le esigenze della tutela della salute sono, tuttavia, primarie e, in ogni caso, l’etica dell’epidemiologia impone al ricercatore doveri di indipendenza e di informazione.
Un altro importante problema riguarda la trasparenza dei finanziamenti. Mentre sembrano ormai irreversibilmente lontani i tempi della diffidenza sistematica nei confronti dell’intervento economico di aziende private nella produzione di conoscenze scientifiche, appare, a maggior ragione, necessario richiamare, accanto al requisito fondamentale dell’onestà intellettuale del ricercatore, l’importanza di una presenza significativa del finanziamento pubblico nella ricerca epidemiologica. Il rischio, che riguarda il momento in cui vengono stabilite le priorità di ricerca, è quello di vedere privilegiati gli studi “ricchi” - perché coincidenti con gli interessi di una compagnia - rispetto a studi più urgenti ma meno adeguatamente finanziati.
Apparentemente più complesso, il problema epistemologico (o dei valori di orientamento) può essere meglio compreso mettendo a fuoco il rapporto che intercorre, nel rapporto tra fattore di rischio e patologia, tra individuazione del nesso epidemiologico e scoperta del meccanismo biologico. Per solito, infatti, l’epidemiologia “anticipa” il laboratorio e fornisce informazioni utili per l’adozione di misure di prevenzione. Ma che peso assegnare a queste osservazioni? Secondo alcuni studiosi esse sono sufficienti a giustificare l’adozione di interventi di prevenzione, in rapporto al cosiddetto “principio cautelativo” (ad es.:poiché una decina di studi epidemiologici hanno dimostrato un aumento dell’incidenza di cancro in soggetti esposti per lungo tempo a insetticidi non arsenicali, è giusto disporre misure che limitino al massimo tale esposizione). Secondo altri, invece, solo l’individuazione dei determinanti biologici consente di avere le certezze necessarie per l’adozione di misure, anche complesse e costose. Se infatti i condizionamenti economici, politici e culturali sono rilevanti, anche la conduzione di uno studio epidemiologico può risentirne sino a subire distorsioni, seppure non intenzionali, e proprio tali distorsioni, in ultima analisi, giustificano l’esistenza di un problema epistemologico.
Circa, poi, il problema morale delle scelte, appare chiaro che l’epidemiologia fornisce strumenti di grande utilità per le scelte della sanità pubblica, ma che quest’ultima, con la sua ispirazione utilitaristica, tende a porsi in conflitto con i principi che ispirano tanto l’etica libertaria che quella personalista. Con la prima il conflitto si pone per la richiesta, posta dalla sanità pubblica, di sottomettere la volontà dei singoli alla superiore esigenza di tutelare l’intera popolazione (tipico esempio, quello delle vaccinazioni obbligatorie). Con l’etica personalista, la rotta di collisione è frequente nei problemi relativi all’allocazione delle risorse. Nell’ottica della sanità pubblica, infatti, non si tiene in soverchia considerazione il problema del finanziamento di costosi interventi per risolvere singoli “casi pietosi”. In epidemiologia ambientale l’esempio corrispondente può essere rappresentato dalla priorità riconosciuta agli studi che riguardano vasti ambiti di popolazione rispetto agli studi su piccoli gruppi (con l’eccezione, pure significativa, dell’esposizione a sostanze nocive in ambito occupazionale). Sappiamo invece che l’etica personalista, sostenuta anche dal magistero della Chiesa, attribuisce valore illimitato alla vita e alla salute di ogni singolo individuo, e chiede pari interventi, quindi, anche per piccoli gruppi. Un epidemiologo abituato a soppesare il peso delle sue azioni e a riflettere sul significato del proprio lavoro, non può sottrarsi alla conoscenza di questi specifici aspetti di natura etica. Sono tuttavia da segnalare interessanti risposte provenienti dalla filosofia del neo-contrattualismo, che potrebbero contribuire a conciliare la libertà individuale e i diritti della persona con le esigenze della collettività. Attraverso un patto (il “contratto”, appunto) stabilito tra i membri di una collettività, potrebbe sì essere superata la visuale del singolo, ma con il suo assenso. Il patto, secondo Shrader-Frechette, dovrebbe radicarsi sull’accettazione, anche nell’interesse delle generazioni a venire, del principio che pone il rispetto della natura come principio base cui attenersi. In particolare tale principio - vincente rispetto ai diritti umani “deboli”, come il diritto di proprietà dei beni materiali - dovrebbe essere subordinato solo ai diritti umani “forti” (sopravvivenza, salute, dignità). Non deve essere confusa, in questo caso, la posizione preminente assegnata al rispetto della natura con le posizioni dell’ambientalismo più radicale, rispetto alle quali l’epidemiologo adotta un angolo di visuale alquanto diverso. Non già difendere l’ambiente contro l’uomo, in nome del valore intrinseco del primo, quanto, piuttosto, riconoscere alla tutela dell’ambiente una forte valenza positiva in chiave di difesa della salute umana, e proteggere l’ambiente proprio in nome di questa salute. La necessità del ricorso a una convinta partecipazione delle popolazioni coinvolte in studi epidemiologici è strettamente connessa agli obiettivi di prevenzione cui la stessa epidemiologia è per sua stessa natura orientata. E la stessa prevenzione - a sua volta, per sua stessa natura - è sociale e “partecipativa”: «Se prevenzione è promozione e tutela di salute, essa non può concludersi nell’ambito individuale, ma deve muoversi e compiersi in quello sociale: cioè l’ambito di vita e di lavoro dell’uomo, là dove egli è in quanto sono gli altri, [...]. Prevenire per la salute vuol, dunque, dire coglierne la dimensione collettiva e derivarne corrette indicazioni di analisi e di intervento per quella individuale. Ma vuol anche dire che tale compito deve essere collettivamente assunto [...] in quanto investe l’intero assetto sociale, il modo di produzione, l’organizzazione della vita, ecc. ponendo una serie di problemi non delegabili “d’ufficio” o “per via gerarchica” ma gestibili soltanto dalla soggettività collettiva, cioè in modo largamente e autenticamente partecipatorio» (Maccacaro, 1976).
Ecco prendere forma, quindi, una precisa identità della bioetica vista e vissuta dall’epidemiologo ambientale. In essa si collocano aspetti diversi, provenienti dal contributo di diverse correnti di pensiero. Vi ritroviamo, infatti, il respiro utilitaristico proprio della sanità pubblica, temperato dal “patto” contrattualista e permeato da quella vena egualitarista che forse rappresenta il riferimento più genuino, anche storicamente, dell’epidemiologia. La risorsa epidemiologica, infatti, autonoma e credibile, è da sempre al servizio del principio di giustizia. La descrizione, “scomoda”, se necessario, dell’esposizione a fattori di rischio, con precisi riferimenti alle caratteristiche delle comunità, quali nazionalità, etnia, reddito, classe sociale, così come la diffusione dei risultati, sono vere e proprie “missioni” dell’epidemiologo. All’epidemiologo ambientale compete, in definitiva, un’azione a difesa della salute di tutta la società, con un particolare riferimento, tuttavia, per le componenti più svantaggiate e meno in grado di affermare il proprio diritto a vivere in un ambiente salubre.
Bibliografia
Botti C., Comba P. - La ricerca epidemiologica su ambiente e salute: considerazioni sulle priorità e sull'equità - Dossier 3 Istituto Gramsci - 1993; 47-56.
Comba P. - La problematica etica del rapporto salute-ambiente - Annali dell’Istituto Superiore di Sanità, vol. 33, n. 2, 1997; 279-284.
Maccacaro G.A. Vera e falsa prevenzione - Epidemiologia e Prevenzione - 9,1979, 1-4. Opera citata da Mondella F., Ideologia della diagnosi ed etica della prevenzione, su DiMeo A. Mancina C. (a cura di), Bioetica, Sagittari Laterza, Bari, 1989.
Shrader-Frechette K. - Ethics and environment - World Health Forum 12, 1991; 311-321.
Terracini B. Environmental epidemiology: a historical perspective. In “Geographical and Environmental Epidemiology - Methods for Small-Area Studies”, Elliott P., Cuzick J., English D., Stern R. eds., WHO Regional Office for Europe, Oxford University Press. 1992: 253-263.
*Roberto Bucci, **G. Zeffiro
*Ricercatore nella Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore - Roma
**Tecnico di igiene ambientale e del lavoro