Cambiamento del clima, G8, habitat, attività antropiche e biodiversità del Parco delle Orobie Bergamasche: meno catastrofismo e più ricerca scientifica

Commento a due articoli apparsi sul Corriere della Sera (8 luglio 2009)
e L'Eco di Bergamo (7 luglio 2009)

Ho letto l'articolo pubblicato su ‘Corriere della Sera – Lombardia’ dell’8 luglio 2009 "Clima, sparisce la primula delle vette" a firma Laura Guardini. Intervengo, in qualità di ricercatore CNR impegnato sui cambiamenti del clima e i suoi effetti sulla vegetazione, per portare alcuni chiarimenti sulla correttezza delle premesse scientifiche e i benefici che si vorrebbero ottenere da queste iniziative. Contestualmente commento le affermazioni del Presidente del Parco delle Orobie Bergamasche - Franco Grassi - e riportate nell'edizione del 7 luglio di "L'Eco di Bergamo" e la posizione del WWF.
L'articolo annuncia la creazione di una stazione del progetto Gloria (Global Observation Research Initiative in Alpine Environments) - coordinato dal prof. Graziano Rossi dell'Università di Pavia - nei pressi del Rifugio Albani, sul versante settentrionale del massiccio della Presolana. Il Presidente del Parco delle Orobie bergamasche, Franco Grassi, e il direttore, Mauro Villa, hanno dato i battesimi dell'iniziativa. Il WWF supporta l'iniziativa nel quadro della problematica sui cambiamenti climatici. In sostanza vengono sistemati reticoli per il monitoraggio della dinamica delle specie vegetali "che, spinte dall'aumento della temperatura, salgono". Dai conseguenti scenari di estinzione seguirebbe la necessità di "reintroduzione" di queste specie (parole del Presidente del Parco in L'Eco di Bergamo, martedì 7 luglio 2009) e quindi l'opportunità di creare una banca di semi per la conservazione ex situ delle specie. Addirittura si ipotizza che Primula albenensis ("primula delle vette") e il 60% delle specie si estingueranno entro il 2080.

E' indubbio che è in atto, in tutta la catena alpina, una evidente progressione della vegetazione verso i piani altitudinali superiori. Questa dinamica contiene almeno due componenti: il cambiamento climatico e il profondo mutamento nelle attività antropiche soprattutto a partire dall'ultimo dopoguerra. Nel caso specifico dell'area prealpina lombarda sotto il limite degli arbusti (2200 m sl.m.), l'abbandono dei pascoli favorisce la ricostituzione di un assetto vegetazionale naturale che i geobotanici chiamano potenziale, ma che, in base agli studi sul polline e i macroresti fossili, non necessariamente richiama gli ecosistemi naturali sussistenti in queste aree alla metà dell'Olocene, circa 5000 anni fa. Gli studi svolti sulla base del confronto di fotografie storiche (per l'area in esame si veda ad esempio Lorenzi & Ferlinghetti, 2006; Ravazzi, 2004) forniscono la documentazione della rapidità del fenomeno. Questi processi dinamici, se agiscono a seguito della cessazione di un fattore limitante (l'incendio, il pascolo, ecc.) procedono secondo curve logistiche, ben note in ecologia vegetale per processi analoghi di incespugliamento, con tempi di invasione di pochi decenni (Feoli & Scimone, 1981; Poldini, 1989), mentre gli studi paleoecologici dimostrano che la risposta climatica della vegetazione (= tempo richiesto per raggiungere un nuovo stato di equilibrio) ad un riscaldamento di 6°C è valutabile in tempi che variano tra 2 secoli e migliaia di anni (si veda ad es. Magri, 1989; Vescovi et al., 2007). Si può affermare quindi che l'area scelta non rispetta il protocollo "Gloria" (che prevede di selezionare aree a scarso o nulla influenza umana). In proposito segnalo che anche sulle vette dei massicci prealpini più elevati lo stato attuale della vegetazione (ad esempio la vegetazione delle vette del Pizzo della Presolana e del Pizzo Arera, ivi compresa la vegetazione dei ghiaioni) è improntato dal pascolo ovicaprino.


Nulla hanno a che vedere con questo contesto le osservazioni svolte altrove e dai glaciologi sulle oscillazioni dei ghiacciai, invocate a supporto dai proponenti dello studio sulle Orobie. E' ben noto infatti che i ghiacciai rispondono direttamente alle variazioni del clima, mentre la dinamica della vegetazione dipende da una combinazione di fattori antropici, ecologici e climatici.


Appare quindi evidente che il problema - così come è stato presentato negli articoli, e con le finalità di conservazione delle specie che si vogliono perseguire - non è stato posto nella maniera corretta: è atteso che i quadrati permanenti disposti dal progetto Gloria nell'ambiente altomontano lombardo registreranno una dinamica decennale, rispondendo in maniera determinante alle mutate attività antropiche piuttosto che al cambiamento climatico. Si sforzino i proponenti di indicare come intendono discriminare un fattore prevalente di disequilibrio (il mutamento delle attività antropiche in corso soprattutto dall'ultimo dopoguerra) da un secondo fattore concomitante che agisce in questo caso nella stessa direzione (il clima), altrimenti le premesse per uno studio orientato allo studio degli effetti del clima non sono sostenibili.


Altre osservazioni: su quali basi si può sostenere uno scenario catastrofico di estinzione di Primula albenensis e del 60% delle specie entro il 2080 ? Dato che Primula albenensis vive sul monte Alben tra 1050 e 2019 m, non è una "primula di vetta", piuttosto il suo habitat è rappresentato da rocce dolomitiche umide e non necessariamente fredde. Gran parte della biodiversità delle Prealpi lombarde ha superato in loco interglaciali nel corso del Pleistocene con temperature medie annuali di 4°C superiori a quelle medie del secolo scorso: quali scenari catastrofici vogliamo immaginare per un'estinzione di massa di queste piante ? E' ben noto che molte di queste specie endemiche sono legate ad habitat conservativi, cioè poco sensibili a determinate variazioni del microclima (peraltro su questo fronte mancano ricerche sui microhabitat, vedi oltre). I promotori del progetto motivino dunque perchè invece sono da ritenere particolarmente "delicate" nei confronti di variazioni climatiche e alle loro implicazioni microclimatiche. Allo scrivente pare invece che queste argomentazioni sul futuro della biodiversità siano deficitarie di conoscenze ecologiche basilari delle aree prealpine. Come possiamo esaminare le reazioni di queste specie al variare dei fattori ecologici, antropici e climatici senza misurare i parametri che riguardano la biologia riproduttiva e la strategia ecologica, nonchè l'habitat, la storia ambientale e climatica a scala secolare e millenaria ? Se il Parco delle Orobie Bergamasche è interessato alla conservazione delle specie endemiche delle Prealpi, suggerisco che promuova ricerche in queste direzioni.


Il Presidente Grassi propone la "reintroduzione", in virtù del paventato rischio di estinzione di talune specie endemiche o stenoecologiche, e quindi la necessità di sviluppare banche di semi per questi scopi. Ma, se gli habitat mutano, come e perchè si vorrebbero ricreare gli habitat che dovrebbero ospitare le specie a presunto rischio di estinzione ? Inoltre: se non si conosce l'ecologia riproduttiva, la strategia, la struttura genetica, la storia e soprattutto l'habitat delle specie in questione, come si vorrebbe stimare il rischio di estinzione ? E come si ritiene di evitare il rischio di contaminazione genetica conseguente ad una reintroduzione di esemplari di cui non si conosce il genoma in modo approfondito ?


Rivolgo la seguente questione all'ente Parco Orobie Bergamasche: muovendo dalle sue finalità di conservazione della natura e tenendo conto dei numerosi interventi di modificazione degli habitat sottoposti alla valutazione dell'Ente nell'ultimo biennio, come intende procedere ad una corretta valutazione di tali interventi, di fronte alla mancanza di conoscenza che riguarda la biodiversità e gli habitat presenti nel parco ?


Infine auspico un linguaggio più sobrio e rigoroso per una corretta informazione all'opinione pubblica sul tema dei cambiamenti climatici. Mi rivolgo anche alle associazioni ambientaliste (il WWF): è corretta informazione associare il catastrofismo declamato dal titolo di questi articoli ("sparisce la primula delle vette") con il G8 ? Mi rincuora conoscere che le straordinarie forme di vita conservate nelle montagne italiane hanno attraversato fasi climatiche assai diversificate, mentre resto turbato meditando che le azioni di monitoraggio sui presunti effetti del clima sulla vegetazione si svolgeranno a un passo da uno degli interventi di maggior impatto sugli habitat mai realizzato nelle Alpi Italiane: la distruzione, a suon di mine, dell'area carsica di alta montagna del Mare in Burrasca, iniziata nel 1994 e tuttora in corso. Gli articoli in oggetto, promossi dal WWF, non ne fanno cenno. Ma questo è un altro capitolo.
Mi saranno graditi commenti e repliche. Resto altresì a disposizione per chiarimenti ed approfondimenti. La documentazione a supporto della presente potrà essere richiesta all'indirizzo dello scrivente.


Cesare Ravazzi
Ricercatore del C.N.R., settore Paleoclimatologia e Paleoecologia del Quaternario
Responsabile della commessa "Cambiamenti climatici - paleoclimatologia" del C.N.R.

Ultima modifica il Mercoledì, 09 Settembre 2009 10:26
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