Influenza, vaccinare i bimbi ci aiuterà anche a gestire meglio Covid-19
Nell'imminente stagione influenzale è probabile che i virus dell'influenza classici si diffondano sovrapponendosi al nuovo coronavirus SARS-CoV-2, responsabile della Covid-19. Il rischio di non riuscire a distinguere tra un'infezione e l'altra non è solo un problema per il sistema sanitario, che potrebbe andare incontro ad un inutile sovraccarico; ma ha anche un forte impatto sociale, soprattutto per i più piccoli, dato che i bambini rappresentano la fascia con il maggior indice di contagio per l'influenza. Le misure di prevenzione attuali, tra le altre cose, prevedono di sospendere le attività scolastiche in caso di sospetto contagio: una situazione che sarebbe molto problematica, anche per l’impatto che l’isolamento sociale e scolastico prolungato potrebbe avere sullo sviluppo delle competenze nei bimbi. Vaccinarsi contro l'influenza è un possibile aiuto: ne abbiamo parlato con Paola Marchisio, direttore della Pediatria ad Alta Intensità di Cura del Policlinico di Milano.
Quali sono i rischi dell'influenza nei bambini?
La diffusione dei virus influenzali generalmente raggiunge il picco all’inizio del mese di febbraio, colpendo soprattutto la popolazione in età pediatrica (0-4 anni e 5-14 anni) e, tra questi, in particolar modo i bimbi più piccoli. Molti studi hanno dimostrato che i bambini sotto i 2 anni di vita hanno un rischio aumentato di sviluppare una malattia grave, così come i bimbi colpiti da immunodeficienza e/o con malattie respiratorie croniche. Tuttavia, forme gravi di influenza si possono verificare anche in persone sane.
N20, una crescente minaccia per il clima
Budget di N2O per il periodo 2007-2016. Le frecce colorate rappresentano i flussi di N2O (in Tg N /anno) da fonti antropogeniche (giallo), emissioni da fonti naturali (verde), fonti e consumi atmosferici (blu). Modificato da Tian et al. 2020, Nature.
Una ricerca internazionale dimostra che negli ultimi decenni le emissioni del protossido di azoto, potente gas serra causato principalmente dall’uso di fertilizzanti in agricoltura, stanno crescendo a ritmi sostenuti con il rischio di compromettere gli obiettivi climatici dell’accordo di Parigi. Lo studio, pubblicato su Nature, ha visto la partecipazione dell’Istituto di scienze marine del Cnr
Il crescente utilizzo di fertilizzanti azotati in agricoltura ha provocato, negli ultimi decenni, un’impennata della concentrazione atmosferica di protossido di azoto (N2O), il terzo gas serra di lunga durata più importante dopo l’anidride carbonica (CO2) e il metano (CH4), che contribuisce alla riduzione dell'ozono stratosferico. Se il trend dovesse proseguire a ritmi così sostenuti, l’aumento della temperatura media globale potrebbe sforare ben oltre la soglia dei 2°C stabilita dagli accordi di Parigi 2015. È quanto dimostra uno studio pubblicato su Nature, coordinato dalla Auburn University (Alabama, Usa), sotto l'egida del Global Carbon Project e della International Nitrogen Initiative, che ha coinvolto scienziati di 14 Paesi e 48 Istituti di ricerca, tra cui l’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ismar).
Sindrome di Pitt-Hopkins: all’Università di Pisa un progetto di ricerca studia le mutazioni del gene TCF4
Ricercatrici del Dipartimento di Biologia cercano risposte alla rara patologia cranio-facciale che colpisce i bambini
Generare nuovi modelli per studiare gli effetti di tre mutazioni del gene TCF4 che causano la sindrome di Pitt-Hopkins, una rara patologia cranio-facciale che colpisce i bambini. È questo l’obiettivo di un progetto di ricerca coordinato dal Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa che è stato finanziato dalla Comunità Europea nell’ambito del Consorzio Solve-RD, “Solving the unresolved rare diseases”. Il team di ricerca è composto dalla professoressa Michela Ori, responsabile del progetto, dalla dottoranda Miriam De Sarlo e dalla ricercatrice Chiara Gabellini. Partner della ricerca è il Centro Ospedaliero Universitario di Digione, in Francia, coordinato dal professor Antonio Vitobello.
Le ricercatrici utilizzeranno biotecnologie molecolari e tecniche di gene editing su modelli oggi ampiamente impiegati negli studi di biomedicina – come le larve del pesciolino Danio rerio (zebrafish) e della rana Xenopus laevis – per capire come queste mutazioni creino difetti nello sviluppo embrionale. Obiettivo finale è generare modelli ad oggi non esistenti su cui testare eventuali interventi terapeutici e che potranno essere utilizzati da tutta la comunità scientifica per studiare più approfonditamente le patologie associate a mutazioni in questo gene.
Water on ancient Mars - Analysis of a Martian meteorite reveals evidence of water 4.4 billion years ago
There’s a long-standing question in planetary science about the origin of water on Earth, Mars and other large bodies such as the moon. One hypothesis says that it came from asteroids and comets post-formation. But some planetary researchers think that water might just be one of many substances that occur naturally during the formation of planets. A new analysis of an ancient Martian meteorite adds support for this second hypothesis.
Several years ago, a pair of dark meteorites were discovered in the Sahara Desert. They were dubbed NWA 7034 and NWA 7533, where NWA stands for North West Africa and the number is the order in which meteorites are officially approved by the Meteoritical Society, an international planetary science organization. Analysis showed these meteorites are new types of Martian meteorites and are mixtures of different rock fragments.
Beetroot peptide as potential drug candidate for treating neurodegenerative and inflammatory diseases
In a recent study, a research group led by Christian Gruber at MedUni Vienna's Institute of Pharmacology isolated a peptide (small protein molecule) from beetroot. The peptide is able to inhibit a particular enzyme that is responsible for the breakdown of messenger molecules in the body. Due to its particularly stable molecular structure and pharmacological properties, the beetroot peptide may be a good candidate for development of a drug to treat certain inflammatory diseases, such as e.g. neurodegenerative and autoimmune diseases.
The peptide that occurs in the roots of beetroot plants belongs to a group of molecules that plants use inter alia as a chemical defence against pests such as e.g. bacteria, viruses or insects. "By analysing thousands of genomic data, our team was able to define a number of new cysteine-rich peptides and assign them phylogenetically in the plant kingdom. In this process, our attention was drawn to a possible function as so-called 'protease inhibitors'. The beetroot peptide can therefore inhibit enzymes that digest proteins," explains Gruber.
A malformation illustrates the incredible plasticity of the brain
Neuronal fibres in a healthy brain (left) and a brain with agenesis of the corpus callosum (right). In the healthy brain, the two hemispheres are connected by the corpus callosum fibers, shown in red. These fibres are absent in the brain with corpus callosum agenesis.
One in 4,000 people is born without a corpus callosum, a brain structure consisting of neural fibres that are used to transfer information from one hemisphere to the other. A quarter of these individuals do not have any symptoms, while the remainder either have low intelligence quotients or suffer from severe cognitive disorders. In a study published in the journal Cerebral Cortex, neuroscientists from the University of Geneva (UNIGE) discovered that when the neuronal fibres that act as a bridge between the hemispheres are missing, the brain reorganises itself and creates an impressive number of connections inside each hemisphere. These create more intra-hemispheric connections than in a healthy brain, indicating that plasticity mechanisms are involved. It is thought that these mechanisms enable the brain to compensate for the losses by recreating connections to other brain regions using alternative neural pathways.
Una scoperta chiave rivela che la Neuropilina-1 promuove l’infettività del virus
La scoperta apre la strada per un potenziale trattamento antivirale che colpisce un meccanismo di entrata del virus nelle cellule
Un team di scienziati internazionali, guidati dall’Università di Bristol, ha fatto una scoperta rivoluzionaria che potrebbe aver identificato che cosa rende il virus SARS-CoV-2 così infettivo e capace di diffondersi rapidamente nelle cellule umane. La scoperta, pubblicata su Science martedì 20 ottobre, dimostra che l’abilità del virus di infettare le cellule umane si può ridurre utilizzando degli inibitori che bloccano l’interazione tra il virus e una nuova proteina sulle nostre cellule. Questa osservazione potrebbe portare allo sviluppo di nuovi trattamenti antivirali.
A differenza di altri coronavirus, che causano raffreddore e lievi sintomi respiratori, SARS-CoV-2, che è l’agente causativo del COVID-19, è altamente infettivo e trasmissibile. Finora, una delle domande rimaste ancora senza risposta riguarda il perché questo virus sia capace di infettare facilmente organi che risiedono fuori dal sistema respiratorio, per esempio cuore e cervello.
Per infettare gli esseri umani, il SARS-CoV-2 deve prima di tutto attaccarsi alla superficie delle cellule che ricoprono il tratto respiratorio o intestinale. Una volta adeso, il virus invade le cellule e si replica al loro interno generando un gran numero di copie di se stesso. Le copie del virus sono poi rilasciate dalle cellule e questo processo sostiene la trasmissione del virus.
Seven different "disease forms" identified in mild COVID-19
In a study recently published in the top journal "Allergy", a team of MedUni Vienna scientists led by immunologist Winfried F. Pickl and allergologist Rudolf Valenta (both from the Center for Pathophysiology, Infectiology and Immunology) showed that there are seven "forms of disease" in COVID-19 with mild disease course and that the disease leaves behind significant changes in the immune system, even after 10 weeks. These findings could play a significant role in the treatment of patients and in the development of a potent vaccine.
In the study involving 109 convalescents and 98 healthy individuals in the control group, the researchers were able to show that various symptoms related to COVID-19 occur in symptom groups. They identified seven groups of symptoms: 1) "flu-like symptoms" (with fever, chills, fatigue and cough), 2) ("common cold-like symptoms" (with rhinitis, sneezing, dry throat and nasal congestion), 3) "joint and muscle pain", 4) "eye and mucosal inflammation", 5) "lung problems" (with pneumonia and shortness of breath), 6) "gastrointestinal problems" (including diarrhoea, nausea and headache) and 7) "loss of sense of smell and taste and other symptoms".
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