
Scienza generale (153)
Anche le scimmie hanno ‘tradizioni’
19 Ago 2017 Scritto da Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Istc-Cnr)I cebi barbuti di Fazenda Boa Vista, in Brasile, tramandano di generazione in generazione comportamenti tecnologici come l’uso di strumenti per rompere noci di palma: allo studio che ha ottenuto la copertina di Pnas partecipa Elisabetta Visalberghi dell’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Cnr
Le tradizioni culturali umane si mantengono attraverso meccanismi quali l’imitazione e l’insegnamento. Ma cosa accade in altre specie? I risultati di uno studio su una popolazione di cebi barbuti ‘Sapajus libidinosus’, condotto da un gruppo di ricercatori - fra cui Elisabetta Visalberghi dell’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Istc-Cnr) - a Fazenda Boa Vista, nel Nord-Est del Brasile, mostrano che l’uso di strumenti per queste scimmie è una ‘tradizione’ che gli individui imparano da giovani e che passa di generazione in generazione. L’articolo ‘Synchronized practice helps bearded capuchin monkeys learn to extend attention while learning a tradition’ è stato appena pubblicato sul numero dei Proceeding of the National Academy of Science (Pnas) guadagnandosi anche l’onore della copertina. “I risultati sono chiarissimi. Se un cebo esperto usa strumenti, l’attenzione di quelli inesperti viene ‘catturata’ facendo aumentare significativamente la frequenza con cui questi individui eseguono comportamenti rilevanti per l’apprendimento dell’uso di strumenti, come battere una noce su un’incudine o un sasso sulla noce. Anche dopo che il cebo esperto ha rotto la sua noce, quelli inesperti continuano a svolgere queste attività per parecchi minuti”, spiega Visalberghi.
NASA Space Apps Challenge: ci siamo! Torna l’hackathon giunto alla terza edizione che si svolgerà in contemporanea mondiale in oltre 130 città i prossimi 10, 11 e 12 Aprile.
È stato firmato ieri un accordo tra l’Agenzia Spaziale Italiana e l'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA): per cinque anni ci sarà una strategia condivisa per l’osservazione della Terra. Verranno identificate le priorità in materia ambientale che possono essere affrontate attraverso l’utilizzo delle tecnologie e delle infrastrutture spaziali dell’ASI.
L'Università di Foggia attiva insegnamento di “Indagini tecnico scientifiche”. E da gennaio via a un master in “Criminologia e psicologia investigativa”.
01 Ago 2014 Scritto da Portavoce unifg.itDa settembre via all'unico esame del genere istituito tra tutti i Dipartimenti di Giurisprudenza delle Università italiane, all'insegnamento prenderanno parte anche esperti delle forze armate nelle investigazioni scientifiche: tra i casi oggetto di studio le sentenze Knox, Sollecito e i delitti Poggi e Gambirasio.
Nel Corso di Laurea magistrale in Giurisprudenza e di quello triennale in Operatore della Pubblica Amministrazione, dal prossimo 22 settembre prenderà il via l'insegnamento in “Indagini tecnico scientifiche” curato dalla prof.ssa Donatella Curtotti (che garantirà agli studenti che lo frequenteranno 6 CFU, Crediti formativi universitari). Si tratta dell'unico esame del genere istituito tra tutti i Dipartimenti di Giurisprudenza delle Università italiane, nel senso che esistono altri precedenti ma sono stati incardinati in altri Dipartimenti (perlopiù Medicina) quindi didatticamente strutturati in chiave scientifica e non investigativa. «L’insegnamento di “Indagini tecnico scientifiche”, primo in Italia per l’interdisiciplinarietà della didattica, intende fornire allo studente le capacità di conoscere sia le peculiarità giuridiche di tale tipo di prova che le recenti tecniche investigative rapportate alla diversa tipologia di tracce del reato attraverso l’ausilio di esperti del settore – dichiara la prof.ssa Donatella Curtotti, associata di Procedura Penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Foggia –. Oggigiorno, il rischio di errori è meno accentuato rispetto al passato».
“Date all’uomo un perché e lui potrà superare qualsiasi come”. Ma basta, per favore! Basta con i luoghi comuni, con le frasi fatte. Sonia non ce la faceva davvero più. Eppure era quello il suo lavoro. Non ciò che era diventato, come le sarebbe piaciuto credere, ma ciò che era sempre stato. Tirar fuori dalla propria bocca, ogni giorno più vecchia, ogni giorno più stanca, un grande mare di banalità. Del resto, doveva interloquire con i suoi ascoltatori, tutti quelli che telefonavano erano gente comune, normale, e alla gente normale piace quando qualcuno parla per banalità. Gente normale. Ecco un altro luogo comune. Chiamavano in tanti, ognuno con problemi apparentemente diversi, eppure sempre con qualcosa in comune: non erano soddisfatti della loro vita. Così componevano il numero del programma di Sonia e si sfogavano. E lei rispondeva. La radio di Sonia, la voce del pomeriggio, il punto di riferimento per chissà quanti casi umani dell’intera regione.
Fu uno scatto rigido, improvviso, molto sgradevole, quello con cui si fermò l’autotrasporto clandestino alle otto e mezza di una grigia e stagnante sera d’estate. Era un veicolo enorme, decadente, traballante, vecchio come l’emarginazione e il pregiudizio. La brusca frenata faceva da degna coronazione a un viaggio interminabile e atroce per chi era costretto a percorrerlo. Gli autotrasporti clandestini seguivano sempre strade tortuose, pericolanti e desolate abbastanza da non correre il rischio di essere intercettati dalle squadre di polizia o da qualsivoglia genere di occhio indiscreto.
Non era la sua figura ad affascinarmi. Non erano il taglio degli occhi o il colore dei capelli o la forma della bocca. Non era il suo corpo, né il suo profumo. Era il suo dolore. C’era qualcosa di inesorabilmente magnetico nei suoi singhiozzi, nelle vibrazioni della voce, ora sommesse e ora incredibilmente acute, nel debordante strazio che progressivamente frantumava la lieve patina di compostezza con la quale all’inizio si era presentata. Non provavo certo piacere nel vederla così manifestamente soffrire. Era più una sorta di curiosità, che mano a mano si tramutava in bisogno, in una vera e propria dipendenza. Non sarei riuscito a staccarle gli occhi di dosso. E non avrei saputo stabilire se era una curiosità dovuta alla voglia di capire quel dolore e le sue ragioni, oppure un mero desiderio di contemplazione, di osservazione apparentemente sterile. In assenza di spiegazioni razionali, preferivo abbandonarmi a ciò che i miei istinti suggerivano fosse positivo.
Io mi preoccupo della mia epoca. Fino a qualche secolo fa, una simile affermazione avrebbe potuto apparire scontata. Ma oggi, ora, in questo momento, non più. E’ l’errore fondamentale dell’essere umano, il dare troppe cose come sicure, assolute e naturali. Poi arriva il diverso, l’elemento destabilizzante che ci mette in crisi. Con un gesto distratto ma ugualmente devastante, in un attimo frantuma il fragile e imperfetto castello di sabbia delle nostre convinzioni. E mentre noi arranchiamo e boccheggiamo storditi, troppo confusi per dare ascolto alla ragione, in assenza di altri punti di riferimento ci lasciamo sedurre dalla paura. E senza che ce ne rendiamo conto, il diverso è già diventato il nemico. Il nostro nemico. Perché mi tormento con pensieri del genere? Non dovrei permettere a dubbi irrazionali di influenzare le mie decisioni. L’incertezza fine a se stessa è la peggior malattia di un buon giudice. Ormai, che mi piaccia o no, sono vecchia, e ho portato avanti la mia esistenza seguendo punti di riferimento che sarebbe pericoloso e assurdo rimettere in discussione proprio adesso.
ATENE, IV SECOLO A.C.
“Guardala. Guarda quanto è bella.”
“Sì, maestro, anche se… c’è qualcosa che mi inquieta, nella luna piena. Come se qualcuno ci osservasse. Una donna.”
“Una donna, dici?”
“Una grassa donna dai seni enormi e cadenti. Con le braccia tese verso di noi, un sorriso affettuoso e invitante, e gli occhi… occhi così chiari da risplendere nel cielo oscuro, occhi in cui i mortali rischiano costantemente di perdersi fino a dimenticare tutto il resto.”
“Potrebbe essere Selene, la donna a cui alludi. Quando la luna è piena, Selene si fa un po’ più vicina a noi. Una regina che è forse più autentica di tanti monarchi del nostro tempo, non trovi?”
“Non… non capisco.”
Era convinta che sarebbe arrivata per prima. Quando Cinzia entrò nella stanza che presto avrebbe ospitato la riunione del pomeriggio, vide qualcosa che non si sarebbe mai aspettata di trovare. Posto nel centro esatto del tavolo, come una decorazione o un vaso di fiori. Un bambino. C’era qualcosa di insolito, bizzarro in lui. Dalla statura e dall’aspetto gli si sarebbero dati non più di cinque o sei anni. Un ragazzino robusto, colorito, all’apparenza in ottima salute. Eppure non correva, non saltellava, non si lamentava di trovarsi lì tutto solo. L’intrusione di Cinzia lo lasciò totalmente indifferente. Gli unici movimenti che compiva quasi meccanicamente erano quelli della mano e della testa, intenti rispettivamente a voltare e a leggere le pagine di un gran librone di fiabe pieno di vivaci e suggestive illustrazioni.
Cinzia si guardò intorno. Come era arrivato lì quel bambino? Doveva avercelo portato qualcuno che avesse le chiavi della stanza, un vecchio e squallido appartamento che una volta fungeva da ripostiglio. Un locale un tempo governato dalla polvere e abitato da oggetti inutili e dimenticati. Ora che da qualche anno era stato sgomberato e adibito a sala per le riunioni condominiali, aveva cambiato sia regime che sudditanza. Era sempre il posto più trascurato e angusto dell’intero palazzo, ma adesso senza alcun dubbio era anche il più odiato. Ora a regnare erano i conflitti e le meschinità, e a risiedervi saltuariamente le urla, le imprecazioni e gli insulti che costituivano il principale passatempo comune degli inquilini.